19/11/2003
Conferenza "La società della manipolazione" di Giulietto
Chiesa a "Media e Identità" presso la Biblioteca per
l'Infanzia "De Amicis" di Genova

Enrico Testino:
Come già detto l'iniziativa Media e Identità ha
la finalità sia di raccogliere e divulgare diversi punti di
vista su questo tema che di contribuire a realizzare uno spazio di
confronto e pensiero sull'influenza dei media.
L'influenza dei media nel formare un nuovo uomo può, e deve,
essere analizzata da diversi aspetti: culturale, sociale, politico,
economico, didattico, psicologico, psichico. Il relatore di oggi
può ovviamente offrirci il suo contributo, oltre che su
altri aspetti, in particolare su quelli economico e politico.
Giulietto Chiesa è conosciuto da tutti per la sua
indipendenza di pensiero e critica. E' sempre stato un uomo che ha
saputo osservare e raccontare il mondo al di qua e al di là
del "muro". Oggi continua a farlo raccontando la situazione attuale dai
diversi punti di osservazione, caratteristica questa che lo rende un
testimone e un "attore culturale" prezioso. La sua esperienza e i suoi
viaggi internazionali, il conoscere bene alcune situazioni russe e
d'oriente, conoscere altrettanto bene "l'occidente" e suo spirito
critico lo mettono in grado di offrirci spunti e pensieri importanti.
Giulietto Chiesa:
Il tema è molto vasto e questa sera non credo che potremmo
neanche lontanamente affrontarlo approfonditamente. Cercherò
di porre comunque l'attenzione alcune di queste questioni.
Una questione è stata introdotta dalle parole appena dette
perché, in effetti, la mia esperienza internazionale mi ha
consentito di osservare avvenimenti e cose che se fossi stato qui non
avrei visto. Innanzitutto vedere come il sistema mediatico
può produrre un cambiamento politico.
Lo si può osservare anche qui, ma da noi, nelle
società industriali evolute occidentali, dove esiste una
forte società civile più o meno organizzata (in
Italia sicuramente molto forte, ma anche in Germania, in Francia, in
misura molto minore negli Stati Uniti) ci sono comunque fattori di
compensazione che contrastano, modificano i vettori principali del
comportamento sociale.
Dove invece non esistono questi fattori si vede con drammatica evidenza
il peso dei media. Io ho potuto constatare direttamente questo in
Russia e l'ho visto a distanza di tempo in Albania. Vorrei fare questi
due esempi affinchè possiate capire il punto in cui ci
troviamo perché, a mio avviso se non si capisce dove ci
troviamo sarà difficile uscire bene da questa storia.
Comincio con l'esempio russo perché lì ho visto
nello spazio di pochissimi mesi, massimo un anno, come il controllo
mediatico totale di una popolazione può completamente
cambiare le percezione dell'intera popolazione stessa, grandi, piccoli,
bambini, tutti in massa.
La realtà russa era tale che quando è crollato il
Partito Comunista Russo e la società si è trovata
senza ossatura, come una società senza scheletro che si
è afflosciata su se stessa, non c'era una società
civile capace di realizzare una contro-azione organizzatrice delle
menti, e i media hanno assunto una straordinaria virulenza e potenza
che, ripeto in poche settimane, si e realizzata una serie di mutamenti
nel comportamento di massa e la gente è stata letteralmente
costretta a fare quello che i detentori della comunicazione decidevano.
Racconto queste cose di tutta la fase, diciamo, "eltsiniana",
perché spesso mi capita di discutere con i cosiddetti
colleghi giornalisti o i "grandi" conduttori televisivi (facendo
qualche nome Maurizio Costanzo, stamattina ero in convegno con loro,
Gad Lerner, Ferrara, l'elenco potrebbe continuare, per non citare Bruno
Vespa) e scoprire con straordinario curiosità che questa
gente non conosce questi avvenimenti o fa finta di non sapere, forse le
sa ma spesso, francamente, mi pare di capire il contrario.
Non si rendono minimamente conto di quello che stanno facendo, che
è ancora peggio, perché questo da diritto alla
loro falsa coscienza e li aiuta a sopravvivere di fronte alla
quantità incredibile di violazioni della ecologia della
mente di milioni di persone che loro perpetrano senza neanche
rendersene conto (questo se non altro in molti casi).
Per esempio mi ricordo di aver visto la recensione di Gad Lerner a un
libro splendido che io vi suggerisco di leggere (visto che siamo in
sede di biblioteca farò due o tre proposte di lettura):
"Homo Videns" di Giovanni Sartori. E' un libro che per me e stato
straordinariamente istruttivo, erano cose che in parte pensavo ma nella
pubblicazione le ho trovate organizzate e fortissimamente argomentate.
Bene, leggetevi questo libro, "Homo Videns" di Giovanni Sartori, libro
che è passato quasi nel più completo silenzio,
recensito si e no in due o tre posti. Pensate: questo libro,
fondamentale per la cultura italiana, è stato recensito si e
no da due giornali. Una delle recensioni era quella di Gad Lerner che
lo ha fatto letteralmente a pezzi dicendo che era una sciocchezza, una
visione unilaterale dei media, che si offendeva l'intelligenza
… A proposito questo dell'intelligenza del pubblico
è un argomento che sentirete migliaia di volte …
si dice che si offende l'intelligenza degli spettatori
perché la gente si sa difendere. E questa è la
peggiore delle ipocrisie!.
Tornando al discorso precedente, mentre leggevo l'articolo di Gad
Lerner ho capito che non sapeva ciò di cui stava parlando
perché diceva che non è vero che la televisione
manipola poiché questa spesso può far vedere
delle cose semplicemente cosi come sono, che c'è una
verità nell'immagine.
Gad Lerner non aveva capito, o per lo meno così appariva
dalle cose che diceva! Scriveva e non aveva capito che MAI un'immagine
rappresenta la realtà. MAI. Un'immagine è sempre
una mediazione, sempre. Un paesaggio di montagna, attraverso uno
schermo televisivo o cinematografico, non è mai un paesaggio
di montagna. E' un paesaggio di montagna, più colui che ha
girato quelle immagini, più la velocità con cui
ha girato le immagini, più la panoramica, più i
primi piani, i piani lunghi che ha fatto e da tutto questo nasce un
intero discorso sul linguaggio. Sul linguaggio della televisione.
Tutti siamo analfabeti, di questo linguaggio tutti siamo analfabeti, a
cominciare da chi vi parla, perché nel momento in cui una
persona si siede davanti alla televisione e dimentica di essere un
essere razionale anche lui diventa analfabeta, si siede e pensa che sia
finita l'attività intellettuale attiva e cominci
l'attività passiva della ricezione e in quel momento ha
perduto il controllo del mezzo. Il mezzo è manipolatorio per
eccellenza ed è manipolatorio in tutte le circostanze, non
importa chi lo usi, non ci sono dei buoni manipolatori o dei cattivi
manipolatori, questo bisogna saperlo fin dall'inizio.
Meglio saperlo cosi la manipolazione sarà meno subdola, ma
se non lo sai la manipolazione c'è lo stesso. Su questo poi
tornerò più avanti magari nel corso della
discussione che spero ci sia dopo.
Questo appena espresso è un punto chiave.
L'altro punto interessante che volevo
ricordarvi è il seguente. Pensate a questo: la televisione
è diventata l'elemento centrale della vita di milioni, anzi
di miliardi di uomini. Per almeno di un miliardo e mezzo - due miliardi
netti di persone la televisione è diventata l'elemento
dominante della loro vita, quando dico dominante dico che per ore e ore
la televisione è protagonista della loro vita.
E a tale proposito quante sono le ricerche sulla televisione?
Pochissime. Abbiamo in Italia, non voglio offendere nessuno
perché ci sono sempre le eccezioni, se non sbaglio 21
facoltà di Scienze della Comunicazione. Io ho girato un po'
per l'Italia e ho parlato con gli studenti e con i professori di queste
facoltà e, vi dico la verità, sono uscito con i
capelli (già ce li ho così…) ritti due
volte sulla testa!!!
Perché quello che si insegna in queste università
non ha niente a che vedere con quello che di cui vi sto parlando io
adesso. Non si fa ricerca, non si studia nulla, non si sa nulla.
Poi qualcuno si stupisce se Maurizio Costanzo diventa professore della
facoltà della Scienza di comunicazione della Sapienza.
Volete che si faccia ricerca in una Università che sceglie
Maurizio Costanzo come Professore? E' ovvio che non si ricerca, eppure
la televisione è la questione più importante
della vita quotidiana di milioni e milioni di italiani. E non si fa
ricerca su questi aspetti.
(In effetti in america hanno fatto una ricerca, la verità
è che gli americani sono già stati lobotomizzati
in massa e in modo irreversibile purtroppo.)
A proposito di questi temi, altra lettura che vi suggerisco
è: "Neil Postman "Divertirsi da Morire" (edizioni Reset)
sociologo americano, un libro che è stato scritto, mi pare,
14 anni fa e pubblicato negli Stati Uniti. Da noi è arrivato
con un ritardo di 14 anni. Se lo leggerete capirete il titolo,
perché "divertirsi da morire" è inteso
letteralmente e vi sarà chiaro come è avventa la
lobotomizzazione di massa di 200 milioni di americani nel corso di 30
anni. Un altro titolo che vi propongo è "Stupid White Man",
forse molti di voi lo hanno già letto, mi auguro di
sì. Questi appena citati sono due libri fondamentali per
capire che cosa è avvenuto attraverso la televisione nella
popolazione americana. Così quando leggerete i sondaggi che
fanno sì che un presidente semi-analfabeta sia riuscito a
diventare uno che ha il consenso del 75% (anzi che aveva) dei suoi
concittadini capirete perché. Solo attraverso questo si
capisce: solo attraverso la manipolazione della televisione.
Un altro bel libro che vi suggerisco è "L'età
dell'oro" di Gore Vidal, grande romanzo che, letto in trasparenza,
è la storia della televisione americana. C'è una
frase bellissima che racconta tutta la fase in cui la televisione
è entrata nella politica: in una scena del libro
c'è un gruppo di senatori americani che si incontrano, e
improvvisamente, per la prima volta, negli anni '50, compaiono i
riflettori grossissimi, visibili, la gente non è ancora
abituata. Arrivano le telecamere enormi, difficili da spostare, e uno
dei personaggi dice: "E' arrivata la televisione, Dio salvi i
più brutti!". Frase fantastica!
E è così che comincia tutta la faccenda.
La frase del romanzo di Gore Vidal racchiude
una profondissima verità: il passaggio della politica
dall'"Homo Legens" all'Homo Videns. Da quel momento in poi è
l'immagine che determina tutto, è la fine dei programmi
politici, è la fine delle idee ed è l'inizio
della civiltà dell'immagine, cioè della politica
come immagine.
Difficile sperimentare quindi, dicevamo, e l'università non
sperimenta.
Non sperimentano perché questo della televisione
è il tabù fondamentale, QUI è il
potere, quello di cui stiamo parlando adesso è il potere con
la P maiuscola, l'unico, vero, potere della società moderna.
Ecco perché non si fa ricerca. Perché non si deve
sapere, QUESTO è il potere.
Però in alcuni luoghi, se stiamo attenti, qualche
esperimento ce l'abbiamo e possiamo analizzarlo. L'Albania
è, ad esempio, il nostro terreno di esperimento. L'Albania
era un paese miserabile, comunista, che non aveva quasi la televisione,
ma il suo destino l'ha collocata a una distanza sufficiente dalle
nostre coste da potere vedere i nostri 6 canali fondamentali. E nel
loro silenzio, con le loro televisioni in bianco e nero, per anni hanno
visto le nostre televisioni, e hanno imparato la nostra
società dalle nostre televisioni…capite? Vivevano
in un altro paese e vedevano l'Italia attraverso le sue televisioni, e
cosa hanno immaginato dell'Italia? Che l'Italia fosse fatta di donne
nude, di lustrini, di bei prodotti, di macchine lussuose e fantastiche,
di frigoriferi, di grandi appartamenti, di enormi divani e
così via discorrendo: in poche parole la
Pubblicità.
La pubblicità e, naturalmente l'intrattenimento. Per quanto
riguarda i telegiornali, cosa volete che importino. I telegiornali sono
un microscopico segmento del palinsesto quotidiano, circa il 4-5%, il
resto, il 96% è pubblicità e intrattenimento in
questo preciso ordine, ormai.
In Albania hanno imparato questo e hanno naturalmente scoperto poi che
non era così. Ma questo ci dice che l'immagine che la
televisione produce è essenzialmente falsa ce lo conferma
con l'esperimento l'Albania.
La televisione presa nel suo insieme, come
oggetto, elettrodomestico che produce comunicazione, è
sostanzialmente falsa. Non dico manipolata, non dico parzialmente
falsa, dico FALSA! E noi viviamo immersi in questa fabbrica di sogni
che comunica quotidianamente una valanga di falsità, di
ideologie, di stereotipi, di ideuzze, di idee grandi, piccole, medie,
di valori.
Ci sarebbe da aprire una piccola parentesi: la sinistra, tutta la
sinistra includendo anche una cospicua parte di mondo cattolico, di
tutto questo non ha capito niente!
Sono stati per anni a discutere della "par condicio". Cosa era la "par
condicio": era misurare quanti minuti si danno a D'Alema, quanti minuti
si danno a Berlusconi, quanti a Rutelli. Questi non avevano capito che
la "par condicio" non serviva assolutamente a niente.
…
E quando sono andati al governo quelli della
sinistra hanno gestito la televisione esattamente come quelli di
destra. Anzi, la televisione di Stato ha copiato la televisione di
Mediaset facendo esattamente le stesse cose. Prova questa, che non
hanno capito niente. Ma anche questo, all'interno dei temi della
manipolazione, è un dettaglio.
Ritorniamo al tema principale. Noi ci troviamo con il discorso della
televisione dentro il tema grande della democrazia perché
non c'è più nessuna possibilità di
pensare una società democratica quando la grande massa della
popolazione di questa società non ha più le
informazioni essenziali per orientarsi nella società in cui
vive.
Aggiungo una cosa che, sono certo, scandalizzerà qualcheduno
molto di sinistra, la dico con tutta la brutalità del caso
perché io ho scoperto, andando ai Social Forum in giro per
il mondo, che c'è un sacco di gente che di sinistra non ha
capito niente, neanche loro. Non hanno capito, per esempio, questi
ragazzi e non ragazzi, che ormai sono entrati in una fase, data la
potenza dei mezzi che abbiamo di fronte, in cui i bisogni
dell'individuo non sono più bisogni materiali.
Perché se tu disponi di uno strumento di comunicazione
sufficientemente potente puoi rovesciare la scala di valori. E
improvvisamente puoi scoprire che c'è un sacco di gente che
non ha una lira in tasca ma desidera spasmodicamente solo le cose che
non può comprare. Ci può anche essere della gente
che non ha la pensione ma non riesce a capire perché il
problema della pensione viene messo nell'agenda del giorno all'ultimo
posto dei telegiornali e, siccome l'agenda del giorno è
quella che fanno i media, la pensione, che pure è vitale per
sopravivere, finisce nell'ultimo posto nella graduatoria dei desideri.
Noi assistiamo al fatto che nelle bidonville di San Paolo la gente si
compra la televisione prima di procurarsi la colazione. E nelle
bidonville la gente sta attaccata all'intrattenimento che, secondo il
nostro pensiero razionale, la offende, a violenta, la umilia. Come mai?
Come mai si decide di comprare la televisione e di non mangiare?
Vedete che c'è un rovesciamento dei valori. Allora dove
siamo? Noi siamo in una situazione in cui si dice tutta una serie di
cose e si fanno esattamente le cose opposte. Mi pare molto sovietica,
ai tempi dei sovietici si diceva che i cittadini sovietici dicevano una
cosa, ne pensavano una seconda e ne facevano una terza. Era il pensiero
della doppia verità. Noi ci siamo dentro totalmente.
Parliamo di pluralismo e libertà d'informazione. Quale
pluralismo? Voi al mattino vi alzate, comprate un giornale, poi ne
comprate un altro (se avete i soldi, se no potete guardare le prime
pagine) e cosa scoprite? Scoprite che sono tutte uguali! E
perché sono tutte uguali? Ma perché ormai si
è formata una macchina, è una macchina quella che
agisce, un meccanismo, una specie di tritasassi che costringe tutti a
essere unificati.
Volete un esempio?
Quando ero nell'ultima guerra afgana nella valle del Panshir, una sera,
(scrivo ogni tanto anche per La Stampa, sempre meno perché
le cose importanti non le vogliono neanche se sono degli scoop e le
cose meno importanti non interesano a me e quindi non le faccio) ero
lì per La Stampa, squilla il telefono Erano le 19, ero
chiuso nella valle, non potevo uscire, e mi dicono: "Guarda che
è cominciato l'attacco su Kabul" "Come?" dico io "Ne vengo
adesso, due ore fa ero lì."
Non mi risultava, non avevo visto carri armati, non c'erano i
preparativi dell'attacco. Com'era possibile? Eppure c'era un collega
del Corriere della Sera che sta dicendo, via radio, a radio 24 che era
in corso l'attacco a Kabul da parte dei mujaidin.
Mi dicono: "Non puoi andare fuori a vedere?" "No, non posso andare
fuori a vedere." rispondo "E' vietato, non si passa, c'è un
blocco. Di notte non si passa"
Allora il mio interlocutore dall'atra parte dice: "E va bene, purtroppo
dobbiamo fare così . Non hai le informazioni."
"Ma io non ho le informazioni probabilmente perché
'informazione non c'è. Avete verificato bene?" dico.
"Guarda" mi replicano "sto sentendo adesso con l'altro orecchio che lui
sta dicendo che è su un blindato che sta andando a Kabul
insieme ai mujaidin. Cosa facciamo?"
"Tu non scrivere niente con la mia firma." replico "Poi mettete come
volete. Se le agenzie danno la notizia fate come volete ma con la mia
firma, nel mio pezzo questa notizia non la date perché
secondo me non è buona."
La Stampa, l'indomani mattina, è uscita con la notizia che
titolava che i mujaidin stavano andando a Kabul. Naturalmente la
notizia era falsa. Il Corriere della Sera l'ha data in prima con un
titolo grosso così, La Stampa piccola.
L'argomentazione che mi diedero di questa scelta fu: "Noi non potevamo
non darla, perché se non la davamo, comunque, avremmo fatto
la figura di quelli che hanno preso il buco."
E così funziona sempre ormai. E non solo nella concorrenza
tra giornali ma anche tra i giornali e la televisione. I giornali la
mattina riproducono esattamente quello che il tg1 e tg5,
fondamentalmente, hanno prodotto la sera prima. Se voi provate a dire a
qualche direttore di questi giornali "ma perché correte
dietro a delle notizie palesemente false?" loro ti rispondono sempre la
stessa cosa: "Se noi non lo facciamo passiamo per quelli che hanno
perso la notizia" E quindi preferiscono dare una notizia che sanno
essere falsa pur di non passare per gente che ha perduta la notizia.
Questo vale su scala mondiale.
Ci sono due agenzie di stampa: soltanto 2, che determinano tutto
ciò che viene prodotto su scala mondiale. Queste due agenzie
sono la Reuters e la Associated Press. Tu non puoi eludere quello che
hanno fatto queste due agenzie principali. L'ansa cosa farà
di conseguenza? Riprenderà la Reuters dicendolo o no, non ha
importanza. La Reuters si è strutturata in modo tale da
avere in giro per il mondo almeno 300 punti di corrispondenza. Nessun
può permettersi niente del genere. Cosa vuol dire?
Vuol dire che la Reuters produce notizie scritte e, soprattutto adesso,
notizie televisive che sono quelle che determinano ciò che
in tutto il mondo si vedrà il giorno dopo. Questo
è il massimo della uniformizzazione del sistema informativo.
Potete fare tutti i giorni questa prova. Le fotografie che voi vedete
sui giornali sono quasi tutte di fonti ristrettissime: 4-5 grandi
agenzie producono tutte le fotografie.
Avrete notato questo in certi momenti. L'avrete visto l'altro ieri la
fotografia del soldato con la mano sul casco davanti alla caserma di
Nassyria dove sono morti i soldati, è identica sui 3
giornali principali: La Stampa, Corriere della Sera, La Repubblica. La
stessa fotografia virata addirittura con lo stesso giallo. Identica.
Queste sono prove che tutti possono fare e constatare facilmente.
Ritornando al livello mondiale, ma finora questo riguarda un piccolo
segmento della comunicazione e dell'informazione, pensate che le cose
sono molto, molto più serie di quelle che appaiono. La
pubblicità e' diventata mondiale. Lo raccontavo oggi. Lo
racconto anche a voi. Siccome giro per il mondo mi è
capitato di vedere negli ultimi due anni dappertutto la stessa
pubblicità identica tradotta in varie lingue, dal cinese al
russo all'inglese, dal francese allo spagnolo, dal portoghese
all'italiano. La pubblicità della Hyundai, una macchina
coreana. Bellissima pubblicità, lo dico sempre, a che la
ideata darei il premio Pulitzer mondiale. La pubblicità era
fatta cosi: come quelle che vedete più o meno normalmente,
piena di roba tecnologica, partiva da specie di ingrandimento fino ad
"scendere" alle più piccole particelle della materia e poi
l'inquadratura tornava "in su", ad allargarsi, fino a vedere la
macchina completa bella, rutilante, colorata, stupenda, e poi si
sentiva sotto una voce fuoricampo che diceva: "PREPARATI A VOLERNE UNA."
Sentirla in tutte le lingue fa un grande effetto perché
l'effetto è potente in tutte le lingue che io sono in grado
di capire. "PREPARATI A VOLERNE UNA."
Uno slogan fantastico, spiega tutto, tutto quello che sta accadendo.
Noi siamo arrivati in un'epoca in cui praticamente tutti i bisogni che
abbiamo sono stati preparati da qualcun altro che ha deciso che noi
dobbiamo prepararci a desiderarli. Qualcuno ha qualche dubbio al
riguardo? Lo so, se fosse qui, Gad Lerner mi direbbe che ho una visione
un po' pessimistica dell'Uomo. Ahimè! Gad Lerner potrebbe
fare con me molte verifiche di questa constatazione.
Una ve la dico subito tornando al discorso degli Stati Uniti d'America,
che stanno facendo tutto quello che fanno… come sappiamo
sono l'unico paese al mondo in cui il risparmio non c'è
più. Il risparmio è diventato negativo. In
termine tecnico vuol dire che gli americani spendono da anni molto
più di quello che producono.
Che cosa vuol dire? Vuol dire che la massa dei bisogni che è
stata iniettata dal sistema mediatico su una intera popolazione di topi
da esperimento ha portato al risultato che questi topi non sono
più capaci neppure di fare i conti in tasca di quello che
hanno. Questo spiega perché gli Stati Uniti d'America sono
il paese più indebitato del mondo. Non so se per Gad Lerner
sarebbe una spiegazione sufficiente. Per me lo è.
Saltando "di palo in frasca" si arriva, con questo ragionamento, a
capire perché siamo in guerra. Siamo in guerra
perché il sistema mediatico ha prodotto un paese, che
è il paese più indifeso da questo punto di vista,
che è diventato ormai incapace di frenare le sue pulsioni al
consumo. E siccome consumare significa avere delle merci, ci sono due
modi per procurarsele, o le produci o le pigli! Le pigli a mano armata!
Questo è quello che sta accadendo, se volete una spiegazione
generale che è assolutamente vicina alla realtà
delle cose…se non proprio la realtà delle cose.
Ho portato l'esempio sull'informazione, quello sulla
pubblicità. Su ciascuno di questi naturalmente ci sarebbe
una intera conferenza da fare.
Ora passo al terzo punto che riguarda l'intrattenimento. Tra una
chiacchiera e l'altra sul pluralismo dell'informazione, il rispetto dei
diritti umani, sulla meravigliosa civiltà occidentale, fatta
di libertà siamo arrivati ad un punto in cui i processi di
concentrazione mediatica solo tali che ormai l'intero meccanismo della
produzione di intrattenimento, pubblicità e informazione
è nelle mani di sei multinazionali, che sono tutte,
più o meno, americane.
Ma questo sarebbe poco se non capissimo che quando noi ci sediamo
davanti a un film come Matrix Reloaded o Matrix Revolution siamo di
fronte a mostruosi processi di manipolazione intenzionale, che non
c'è più un ragionamento oggettivo in questo, noi
stiamo già passando ad una fase in cui coloro che hanno in
mano questo potere sanno di averlo e si organizzano per il futuro.
Matrix è un esempio illuminante di questo. Chi è
che lo produce? Anzi faccio un passo indietro, chi è che ha
prodotto, per esempio, un film come Pearl Harbour? Il Pentagono. Il
Pentagono degli Stati Uniti d'America. "Armageddon", sapete chi l'ha
prodotto? Il Pentagono. E il regista di Armageddon e di Pearl Harbour
sono la stessa persona, lo stesso il regista. Stessi gli sceneggiatori,
stessi i produttori.
Ma tornando a Matrix, sono andato a vedere Matrix 2 (il terzo non l'ho
ancora visto) in una multisala della Metro Goldwin Mayer e prima di
vedere il film mi sono visto sei promo: altri sei film della Metro
Goldwin Mayer. E quando ho guardato Matrix 2 mi sono reso conto che era
uguale agli altri sei promo, esattamente la stessa cosa. Ormai
è una produzione in serie che ha tutte una serie di
contenuti e di meccanismi fantastici. Uno dei quali consiste
nell'abbassare il livello di percezione del pubblico.
Mi spiego meglio. Questo vale per i bambini, infatti lo hanno
sperimentato sui bambini, hanno scoperto che funziona e adesso lo
stanno usando su scala di massa per gli adulti. E come si fa? Producono
formidabili accelerazioni nel montaggio. Più veloce
è il montaggio meno è la capacità di
percezione. Se avessi le possibilità economiche per fare una
ricerca mi piacerebbe andare ad analizzare questi film dal punto di
vista del contenuto subliminale.
Ci sono tre o quattro impatti emotivi che agiscono uno sopra l'altro.
Sono stati fatti degli studi in questo senso, e bisognerà
farne altri, che hanno scoperto che le capacità reattive dei
bambini diminuiscono, si abbattano e producono ansia. Io lo capisco
perfettamente perché l'ho scoperta dentro di me: l'ansia. Se
io mi trovo di fronte ad una cosa che non riesco a decifrare sento alla
lunga un processo di inquietudine perché non afferro
ciò che mi viene detto. E come se voi parlaste di fronte ad
una persona che dice delle cose che continuamente non riuscite a
capire, o riuscite a capire soltanto i brandelli. Pensate che effetto
può produrre sulla mente di un bambino di 5 - 6 anni quello
che si vede in un videoclip? Che è tutto allusivo. Alla fine
il bambino si troverà in una situazione di inquietudine
dovuta a mancanza di messaggio. Si e già accertato che un
bambino sottoposto a questo bombardamento perde facoltà
intellettive. LE PERDE.
Vi do un altro suggerimento di lettura: Jared Diamond, Einaudi, "Armi,
acciaio e malattie" tra le tante cose bellissime che in questo libro
sono raccontate, (di fatto è la storia degli ultimi 13.000
anni dell'umanità) lui fa un esempio: è stato per
molti anni in Nuova Guinea e conosce bene la situazione di quel paese.
Ha scoperto che i bambini della Nuova Guinea sono molto più
intelligenti dei nostri. Più ricettivi, più
capaci di capire. Trasportati in un altro ambiente sarebbero dei geni.
Dove sta la differenza con "i nostri"?
Lui la scopre nel modo in cui vivono i bambini. Certo quando diventano
più grandi, vivendo in un ambiente senza libri, senza
istruzione, senza possibilità di comunicazione culturale
adeguata si entra in un altro discorso.
Ma fino a che sono nella loro fase creativa, produttiva del loro
cevello, dei loro "circuiti" cerebrali, questi bambini sono di gran
lunga più capaci dei nostri. Perché?
Perché parlano, discutono con i grandi, con i bambini,
vivono all'aria aperta, giocano con le loro mani, si creano loro i
giocattoli, non hanno tecnologie da utilizzare quindi devono inventare
tutto e devono comunicare tutto ciò che inventano, devono
imparare la vita stando fuori dalla casa. Il risultato? Crescono dei
bambini molto intelligenti, mentre i nostri hanno una intelligenza
depressa. Capite che con questo si apre un capitolo enorme.
Ma torniamo al discorso della concentrazione: Metro Goldwin Mayer. Chi
sono questi giganti? Sono giganti sinergici, come si dice in linguaggio
tecnico. Prendetene uno (magari sono un po' in crisi per altre ragioni
ma sostanzialmente sono loro che guidano la danza e la guideranno,
temo, per gli anni a venire): America On Line Time Warner, è
il prodotto due fusioni successive. Prima la Warner compra la CNN e
diventano Time Warner, ed è già un grande impero,
un colossale impero. Infatti se metti insieme tutto ciò che
rappresenta la Metro Goldwin Mayer: cinematografica, televisiva, 35
canali televisivi, 25-30 radio, 12 case editrici, 15 giornali, 14-16
riviste settimanali (non ricordo tutte le cifre ma le troverete
perché le stiamo pubblicando).
Time Warner quindi viene assorbito da, la grande sorpresa, la grande
novità, American On Line, il più grande portale
americano, portale di internet, lo dico con un po' di ironia, fino a 5
anni fa internet ci veniva presentato dai suoi adoratori come il regno
della libertà. Non lo è mai stato, sia chiaro, ma
adesso non lo è più per niente.
L'idea per cui internet sarebbe stato il luogo dove noi saremmo andati
a trovare le informazioni vere da tempo è finita, ci ridono
sopra perfino gli americani, anche perché è
impossibile, non abbiamo il tempo per fare queste operazioni, sono
molto più veloci quelli che hanno la proprietà
dei mezzi di comunicazione. Hanno già fatto tutto, hanno
già trasformato internet in una sentina pubblicitaria, in un
luogo dove non è più possibile distinguere la
verità dal falso e dove c'è di tutto.
Quindi internet (che io uso tutti i giorni e verso il quale ho il
massimo rispetto e che è straordinariamente importante ma in
un altro senso) è importante non perché
è il regno della libertà ma perché
è il regno dell'organizzazione.
Questa è la grande novità che è
già stata utilizzata e sarà, spero, utilizzata
fino a che non faranno diventare a pagamento anche internet. Infatti
questo è il passaggio successivo. Ce la toglieranno
facendocela pagare. E' già in corso, ma vedremo.
Fino ad ora noi abbiamo fatto (quando dico noi dico noi che ci stiamo
difendendo, noi che siamo qui, noi che parliamo di queste cose, noi che
cerchiamo di spiegare) Seattle. Senza internet non ci sarebbe stato,
non ci sarebbe stata Genova 2001. Ma non è la
libertà dell'informazione, internet è stato lo
strumento di organizzazione. Io ho adesso ho un sito che si chiama
Megachip e sto incominciando a capire che potenza costituisce avere un
sito, per la comunicazione. A questo punto posso parlare, ma non con
10, ma con 10000 persone, e allora posso comunicare, ma non
è che gli comunico informazione alternativa a quella dei
giornali o delle televisioni, ma gli comunico quello che io penso e
quello che voglio fare con loro.
E se loro sono d'accordo comunicheranno con me. Questa è
organizzazione, non è libertà di informazione.
Una cosa del tutto diversa.
Tutti quelli che pensano che i siti servano
a fare controinformazione sono dei simpatici, volenterosi, illusi.
Tornando al discorso precedente. America On Line si compra Time Warner
Se lo compra proprio così, America on Line è
più potente di Time Warner, un portale è
diventato il CENTRO del potere. Lo sapete quanti indirizzi e-mail,
diretti o indiretti, sono nei forzieri, si fa per dire, di America On
Line? Quasi mezzo miliardo.
American On Line controlla, filtra in un modo diretto ed indiretto gran
parte di quello che voi state scrivendo sui vostri siti. Ma anche se
non usate American On Line ma usate Yahoo, Libero, Virgilio, non ha
nessuna importanza. Il controllo è totale. Tra l'altro
esiste un discorso del controllo politico su tutto questo che sta
diventando ormai dominante. Ma io mi limito a parlare di quello
indiretto: una creatura come American On Line - Time Warner
è in grado di costituire una sinergia tale che tutti quelli
che sono dentro non possono più prescinderne.
Tutti i giornali della catena non potranno mai intaccare, o attaccare,
o colpire altri pezzi di questa creatura che è interessata
anche a tutto il merchandising che va molto al di là della
questione della produzione squisitamente intesa come prodotto di
intrattenimento pubblicitario. American On Line, Time Warner ha
comproprietà in centinaia e centinaia di altri conglomerati.
Quindi tutta questa struttura esclude in linea di principio ogni
pluralismo perché non si può più
toccare niente di ciò che ha a che fare con coloro che hanno
in mano questa struttura.
Quindi i giornalisti non sono più liberi, e se ne accorgono.
Naturalmente sono tutti processi mediali, processi intermedi, che,
è evidente, intaccano e colpiscono anche giornali che
appaiono come progressisti.
Prova a fare una discussione su Auditel a La Repubblica. Noi (Megachip)
abbiamo promosso una campagna contro Auditel. La campagna ha raggiunto
un certo livello. Corrado Augias se ne è interessato e La
Repubblica ha fatto una tavola rotonda dove io … sono stato
escluso! C'era, però, … Costanzo!
Sapete perché? Non mi sento offeso per questo semplicemente
perché so che il mio nome è arrivato sul tavolo
del direttore di La Repubblica che ha detto " No, no, lui no"
Perché? Ma perché non si può parlare
contro Auditel cari amici. Non si può! Se parlate contro
Auditel non riceverete più una quota pubblicitaria e quindi
perderete quattrini… che sono poi quelli che decidono la
vita, la sopravvivenza di giornali, riviste, telegiornali,
ecc…
Questo è il meccanismo. Capite cosa vuol dire? Vuol dire che
siamo di fronte a una macchina potente, strettamente collegata, come
è evidente, al potere, ai poteri. Questa macchina agisce
orma a ritmo frenetico. Più la crisi si aggrava
più questa macchina diventa omnicomprensiva.
Concludo su questo. Mi scuso perché concluderò in
politica. Mi scuso perché apparentemente sembra un tema
lontano ma non lo è perché è un punto
da cui parte tutto e verso cui tutto va anche se purtroppo molti di noi
non l'hanno ancora capito.
Si va verso una situazione in cui le prossime elezioni politiche in
Italia, europee e parlamentari, non saranno più elezioni
democratiche. Non è possibile che ci sia una consultazione
democratica in queste condizioni, come spero abbiate capito.
Non penserete mica che con il monopolio totale delle televisioni coloro
che hanno il potere lascino passare le idee. Guardate cosa è
successo in questi tre giorni (riferito al dopo strage di Nassirya). In
questi tre giorni di lutto nazionale questa macchina "militare"
è riuscita a spostare l'opinione di 2-3 milioni di persone.
In 2-3 giorni.
Noi avevamo, secondo tutte le statistiche, alla fine della guerra
irachena, il 70% della popolazione. Con "noi" intendo dire "noi" che
siamo contro la guerra. Tutti i sondaggi lo dicevano, persino quelli di
Berlusconi dicevano che il 70% degli italiani era contro la guerra.
Nello spazio, ripeto, di tre giorni, anche se le emozioni hanno avuto
il loro peso, quello che hanno fatto i media credo che ve ne siate
accorti tutti. TUTTI i media con l'eccezione di due soli giornali in
Italia, purtroppo, Il Manifesto e Liberazione, hanno fatto
un'operazione di canagliesca trasformazione dei dati, e delle
motivazioni, e delle responsabilità, con il risultato finale
che tutti i sondaggi dicono che adesso siamo 50% e 50%.
Pensate!
Significa aver spostato 2-3 milioni dicono, io dico 4-5 milioni di
persone da una posizione a un'altra posizione. Attenzione
perché se una persona come Paolo Mieli, tutto dire, arriva a
dichiarare: "Attenzione (lo dice per interposta persona) che in queste
condizioni noi stiamo rovesciando i contenuti della democrazia. Si
può andare a votare ma non si sa più con quali
criteri e in quale contesto si vota.", vuol dire che dobbiamo essere
fortemente preoccupati.
Ne accadranno di cose da qui alle prossime elezioni. E ciascuna di
queste sarà una prova mediatica di enorme importanza
rispetto alla quale noi, allo stato attuale delle cose, non abbiamo
strumenti di difesa. Se io "giro" e sono venuto qui a parlare
è perché sono convinto che la cosa più
urgente adesso è cominciare ad affrontare la discussione
sugli strumenti di difesa, come difendere l'opinione pubblica
democratica da questa situazione. Naturalmente il compito è
immenso. Lo dico e me ne rendo conto perfettamente. Noi dobbiamo
adattare la nostra politica, la politiche delle forze democratiche ad
un cambio antropologico, chiamatelo come vi pare, un cambio
strutturale, organizzativo. Noi non abbiamo né le abitudini,
nè le idee, né gli strumenti organizzativi per
rovesciare questa situazione. Sono assolutamente convinto che: o
facciamo questo oppure dovremo rinunciare alla democrazia!
|
27/11/2003
Conferenza "I media e la produzione della verità in guerra"
di Alessandro Dal Lago a "Media e Identità" presso la
Biblioteca per l'Infanzia "De Amicis" di Genova
|
Introducono l'incontro il direttore della biblioteca De Amicis Dott.
Francesco Langella ed il sociologo Massimiliano Di Massa.
Alessandro Dal Lago:
Parto con la definizione di questo
particolare tempo di guerra: cosa vuole dire guerra oggi rispetto al
passato.
Mi perdonerete se parto da lontano ma è fondamentale,
secondo me, partire da questo punto per comprendere le
particolarità, le specificità, di una situazione
di guerra che, lo dico subito, non riguarda solo questa guerra in Iraq
ma riguarda la guerra almeno da un quindicennio (dalla fine degli anni
'80) che non ha eguali nella storia.
E' vero che nulla ha eguali nella storia però, non da un
punto di vista soltanto mio ma diffuso tra gli osservatori di questo
fenomeno, il periodo delle cosiddette "guerre contemporanee" o "nuove
guerre" (che a me non piace tanto come definizione ma utile per
intenderci), le guerre in cui il mondo occidentale o mondo sviluppato,
diciamo così, è coinvolto viene definito periodo
delle nuove guerre.
E' fondamentale capire come questo periodo segni delle rotture rispetto
a conflitti precedenti, non dico né in bene o in male (se
è possibile parlare di bene e male in questo campo). L'epoca
è fondamentalmente diversa e ha caratteristiche diverse. Per
entrare subito in merito il '900, quindi il secolo che è
subito dietro le nostre spalle, è lì, ma
è "l'altro secolo", si definisce come secolo della guerra
totale. Totale nel senso che si tratta di conflitti militari che
occupano, tra l'altro, gran parte del secolo.
Vi faccio un esempio molto banale: gli storici considerano che le due
guerre mondiali non siano episodi diversi, opposti o comunque del tutto
distinguibili, ma siano invece due episodi dello stesso grande
conflitto aperto grosso modo nel 1914 e chiuso nel 1945. Quindi una
guerra di 30 anni, si potrebbe dire, del 900 che ha avuto due episodi
salienti. Così come il periodo successivo dal 1945 al 1989
(quindi altri 44 anni che con i 30 precedenti sono quasi 75 anni su
100) è il periodo della guerra fredda che, sarà
stata fredda quanto volete, ma è stata ampiamente combattuta
in diverse forme.
Questo vuole dire che in realtà se noi prendiamo gli Stati
Uniti, che sono il paese che più di tutti si è
impegnato in questi conflitti, possiamo dire che, pur lasciando perdere
episodi minori di vario tipo, sono in guerra 75 anni su 100, forse
anche 100 su 100. Quindi un secolo che viene definito da alcuni breve,
da altri lungo, comunque è un secolo militare, un secolo
bellico. Rispetto a questo punto osservo anche che la consapevolezza da
parte non solo di storici ma anche di sociologi, osservatori, filosofi,
ecc. , è abbastanza particolare. Perché
l'importanza che viene data al conflitto militare in varie forme, caldo
o freddo, dispiegato o combattuto, oppure minacciato è
abbastanza scarsa, ovvero voi non trovate un riflesso di questo fatto:
cioè che il '900 è stato il secolo più
combattivo della storia, non lo trovate riflesso nel pensiero
filosofico, nel pensiero politico, nel pensiero sociologico, ecc.
Questo accade per motivi che poi cercherò di esporre alla
fine dell'intervento. Già questo fatto crea uno
straordinario problema e spiega anche, come e perché, sia
così difficile oggi capire che noi ci troviamo in uno stato
particolare di guerra ma pur sempre in uno stato di guerra.
Dicevamo che il secolo trascorso è il secolo della guerra
totale nel senso che quando viene dichiarata una guerra o quando ci si
prepara a combatterla o quando si vive, come è stato durante
il periodo della guerra fredda, in una situazione di guerra sospesa,
tutte le energie economiche, politiche (non parliamo di quelle
militari), psicologiche, teoriche sono incanalate verso, sotto
l'orizzonte della guerra. In questo senso è totale.
Il concetto di guerra totale è stato coniato nei primi anni
di questo secolo, intorno agli anni '20, dall'allora ex maresciallo
dell'Impero Prussiano intendendo con guerra totale una guerra in cui in
nome della vittoria nessun, dico nessun, obiettivo poteva essere
considerato estraneo alla guerra in senso stretto.
L'Italia ha avuto l'onore, molto dubbio devo dire, di avere prodotto il
teorico più importante della guerra totale: il Generale
(…) che è stato il teorico del bombardamento
strategico, fino alla fine dei paesi avversari, senza distinzione tra
combattenti e non combattenti. Cito questo nome perché se
voi andate a vedere sui siti e digitate su "google" il nome ci sono
144.000 siti, soprattutto anglo-americani, che lo citano come
antesignano e fondamentalmente più importante teorico della
guerra assoluta, della guerra totale che viene in qualche modo
riscoperta oggi. Mettendo quindi piccoli "paletti" teorici siamo dentro
ad un argomento che spesso non viene citato nelle discussioni di
conflitti contemporanei ma di cui esistono però presupposti
piuttosto precisi.
Dico che il secolo precedente è stato il secolo della guerra
totale anche se non sempre la guerra totale è stata portata
fino alle estreme conseguenze. Diciamo che in alcuni momenti topici
questo è stato fatto.
L'altra sera ho visto il film su Pearl Harbour che (mi chiedo
chissà perché è andato in onda in
questi giorni) dove, potete ricordarvi, che dopo l'attacco gli
americani (giustamente qualcuno potrebbe osservare) per ribattere il
colpo subito a Pearl Harbour, decidono, nonostante le
difficoltà dell'impresa, di andare a fare un bombardamento a
Tokio. Il film non dice che quello è stato: un bombardamento
non contro obiettivi militari ma contro obiettivi civili.
Perché gli americani avevano pensato che, visto che si
trovavano di fronte un avversario così difficile come i
giapponesi che erano riusciti a distruggergli l'intera flotta a Pearl
Harbour, avrebbero incominciato a giocare duro.
La guerra totale è la guerra in cui la popolazione civile
può essere colpita e deve essere colpita, secondo gli
storici della guerra, perché lo scopo è vincere a
ogni costo contro il nemico. Così come non viene raccontata
questa storia, e in fondo si tratta di un film, così non
viene detto, e non vorrei che le mie parole fossero fraintese, che una
settimana prima del primo bombardamento a Hiroshima gli americani
fecero dei bombardamenti convenzionali (convenzionale si fa per dire le
bombe erano al fosforo al napalm e di altri tipi) che portarono la
morte di 250.000 persone in 4 giorni.
Con questo voglio dire come non sempre sia vero in senso stretto che la
bomba atomica ha iniziato un'epoca completamente nuova. Naturalmente
questo non valeva per i 250.000 che subirono l'attacco convenzionale.
Questa è la guerra totale: la guerra che non ha confini, che
non ha limiti, la guerra del 20° secolo in cui sono stati
impegnati a titolo diverso molti paesi europei, gli Stati Uniti, la
Russia, la Cina, il Giappone.
Questo periodo si chiude definitivamente (o, se definitivamente
è troppo forte, sicuramente) nel 1989 con la caduta del muro
di Berlino e quindi sostanzialmente con la fine del confronto bipolare.
Per la prima volta nella storia dell'umanità, e questo
è un "bel" problema che ci accompagnerà per molto
tempo, c'è un solo potere militare egemone nel mondo. Questo
potere militare sono gli Stati Uniti.
Due parole solo per renderci conto di come la questione sia "grossa" e
decisiva: oggi gli Stati Uniti, da soli, hanno un budget militare che
è pari a quello di tutti gli altri stati della terra messi
insieme, comprendendo anche ex potenze come la Russia, potenze
emergenti come la Cina e, "potenzine" potremmo dire, coma la Francia,
Inghilterra ecc.
Il budget americano, quindi, è pari a quello di tutti gli
altri stati della terra. Naturalmente questa differenza non conta tanto
dal punto di vista quantitativo ma perché produce una "massa
critica". La capacità militare non si calcola in termini
semplicemente aritmetici, si calcola a partire dal fatto che questa
spesa incredibile, che è stata rinnovata con 400 miliardi di
dollari esattamente la scorsa settimana (la conferenza di Dal Lago
è stata effettuata il 26 novembre 2003. n.d.r.) è
in grado di mettere gli Stati Uniti 30 anni avanti rispetto a qualunque
altro stato della terra in termini di acquisizione e produzione di
tecnologie militari.
Gli aerei stealth, che sono quelli invisibili ai radar, sono stati
inventati intorno agli anni '70 e sono stati impiegati per la prima
volta in modo massiccio durante la guerra del golfo. Dio solo sa, anche
se si ha qualche indizio su questo punto, quali siano le armi che in
questo momento gli statunitensi, che sono peggio di tutti in questo
campo, stanno escogitando nella ricerca tecnologica in campo militare.
Il 1989 segna la fine della guerra totale per il semplice motivo che,
per dirla brutalmente a rischio di essere tranciante, scompare il
nemico globale, quello con cui teoricamente si può
combattere una guerra totale. Non c'è più il
nemico con la N maiuscola.
Questo fatto pone agli Stati Uniti, e agli altri paesi che sono
coinvolti in queste vicende, dei grossi problemi. Siamo di fronte al
paradosso di un paese di meno di 300 milioni di abitanti, quindi copre
il 5% della popolazione mondiale, che, da solo, è in grado
di esercitare una egemonia militare assoluta, quindi potere battere,
vincere, sconfiggere militarmente qualunque altro stato della terra.
Al tempo stesso questo paese non esercita, penso sia opportuno chiarire
questo, né vuole esercitare minimamente una egemonia
politica diretta su tutto il mondo. Gli Stati Uniti non sono in grado
di esercitare una egemonia politico/militare sul resto del mondo.
Secondo i dati di fine anno sulla consistenza del Dipartimento della
Difesa si sa che gli americani hanno circa due milioni circa di persone
pagate dalla D.O.D. (Department Of Defense).
Questo vuol dire che, calcolando gli impiegati civili e soprattutto il
gran numero di militari non combattenti (quelli che stanno in retrovia,
che si occupano di logistica, trasporti, informazioni, genio), gli
americani non possono avere contemporaneamente sul terreno
più di 300.000 uomini pronti al combattimento (mi scuso per
il linguaggio ma è inutile girare intorno alle parole).
In questo momento più di 100.000 sono in Iraq e 200.000 sono
sparsi in 44 paesi in cui gli americani hanno le loro basi. Questo
significa che questo è il limite, soprattutto in questo
momento di crisi economica, oltre il quale gli Stati Uniti avrebbero
giganteschi problemi di bilancio come li avranno quando
finirà, se finirà, la sbornia di carattere
militaresco.
Questo fa si che gli Stati Uniti siano al tempo stesso un paese egemone
in campo militare (possono inviare i loro aerei a bombardare qualunque
buco della terra in qualsiasi momento) ma assolutamente non capaci di
essere il braccio armato di un nuovo potere mondiale. Questo lo dico
perché su queste vicende ci sono abbondanti leggende
metropolitane. Gli osservatori si dividono in diverse categorie. La
prima è di quelli che hanno già dichiarato la
fine dell'Impero Americano e che colgono l'intrinseca debolezza
numerica militare degli Stati Uniti, tra questi ultimi, ad esempio, il
l'autore francese del libro che si chiama "Il declino dell'Impero
Americano". L'altra di quelli invece che ritengono che questo crei una
situazione incomparabilmente nuova nel senso che siamo di fronte ad una
specie di Grandissimo Fratello, con la GF "ipermaiuscole", il quale in
qualunque momento sarebbe pronto ad imporci la sua volontà
attraverso le armi.
Io penso che la verità non sia tanto nel mezzo di queste due
affermazioni ma stia in un terzo luogo, un luogo in cui
fondamentalmente gli Stati Uniti si trovano in una condizione di
strapotere politico militare fragile (e ritengo anche che questo sia la
causa di una condizione di disordine culturale) quindi non contingente,
non provocato da scelte sbagliate (che comunque in questo caso ci sono
state) ma tipico della stranissima e particolare egemonia che gli
americani hanno.
Disordine globale e, quindi, incertezza globale e, quindi, in questo
senso potremmo definire lo stato di guerra contemporanea come uno stato
di guerra ubiqua, diffusa, permanente e al tempo stesso dissimulata,
perché noi ci troviamo in una situazione di guerra
combattuta, convenzionale come era appunto quella del secolo che
precedeva. Ci troviamo in una situazione in cui, praticamente, giorno
dopo giorno la nostra condizione di abitanti del mondo sviluppato (ma
questo vale anche ahimè, purtroppo, in situazioni ben
peggiori nel resto del mondo) possa da un giorno all'altro virare allo
stato di guerra anche se noi non sempre ci accorgiamo di questo fatto.
E qui voglio citare un episodio che a suo tempo mi fece molto ridere
che, premetto è abbastanza comico, ma che dà un
po' l'idea di come all'inizio di questo periodo non ci fosse ancora, in
senso lato, una percezione chiara del cambiamento.
Nel 1991, quando di fatto tutti capirono che il mondo, l'occidente, i
buoni di tutto questo mondo si preparavano ad attaccare Saddam nella
prima guerra del golfo, a Milano, città dove abitavo, nel
mio quartiere (ma questo è successo in molti altri
quartieri) tutti si precipitarono a fare incetta di pasta, pomodoro e
scatolette. La parola guerra che veniva già allora ripetuta
e che echeggiava dappertutto aveva indotto molte persone, probabilmente
anziani, persone che avevano scarse informazioni, a credere che
veramente ci fosse una guerra e cioè che, visto che gli
avvenimenti stavano andando in un certo senso avremmo dovuto aspettarci
bombardamenti, tagli della luce elettrica, ospedali in tilt, e quindi
le persone andarono a fare incetta di scatolame nei supermercati.
Qualcosa del genere è successo nel 1999 quando, forse vi
ricordate, si sparse l'allarme delle possibili ritorsioni dei serbi nei
confronti delle città italiane della costa adriatiche.
Ritorsioni che non ci furono, né potevano esserci per il
semplice motivo che nessun missile serbo aveva la gittata necessaria.
Da allora in poi, benché più o meno ogni anno,
anno e mezzo, un conflitto paraglobale esploda, conflitto in cui anche
il nostro paese è coinvolto, nessuno si preoccupa
minimamente di andare a fare scorte.
La cosa paradossale è che lo stato di guerra di cui sto
parlando è che è uno stato di guerra talmente
ubiqua, talmente diffuso, quindi talmente normalizzato che in qualche
modo noi lo "metabolizziamo" e, anche se certamente c'è
paura per il terrorismo (poi vedremo se si tratta di paure realistiche
o irrealistiche e mitologiche, per quanto possa giudicare io) sta di
fatto che questa evenienza è vissuta in pratica come una
sorta di atto del destino, come se dicessimo:"E va
beh!...capiterà!"
Ho parlato con dei miei colleghi tempo fa dicendo che se io fossi (e
non voglio che le mie parole siano fraintese, sono discorsi puramente
in termini tecnici) uno "dall'altra parte" darei un'occhiata, mi
occuperei, delle metropolitane…dopo 10 giorni compare la
notizia che il Ministro Pisanu sta allertando le metropolitane. Per me
questi risultano fatti ovvi.
Ho cominciato a tornare negli Stati Uniti 1 mese dopo l'11 settembre
dato che il biglietto costava solo 300 dollari, eravamo partiti da Roma
in un Jumbo Jet in 20 su 300 posti disponibili. Nonostante tutto quindi
noi facciamo queste cose, lentamente poi tutto torna alla
normalità e la gente se ne disinteressa.
Mi scuso per il lungo preambolo ma io partirei da questo problema
fondamentale rispetto a cui dobbiamo misurarci: questo è un
particolare stato di guerra in cui l'evento centrale della guerra, e
cioè la distruzione delle vite, o avviene alla periferia del
nostro mondo e in mondi che noi consideriamo periferici, oppure avviene
all'orizzonte del nostro ma in modi virtuali, in modi ipotetici.
Talvolta, ahimè, in modo brutalmente realistico come
è avvenuto a New York l'11 settembre ma tutto questo viene
metabolizzato in un andamento, in un processo di sviluppo del nostro
mondo in cui queste cose sono diventate normali.
Se siamo d'accordo sul fatto che si tratta di una egemonia strana,
l'egemonia militare americana, allora due parole sulle logiche che
presiedono a questo tipo di conflitti, che cosa c'è in
gioco? Quale è il punto? Cerco di sintetizzare per
organizzare le considerazioni.
Penso che quello che è in gioco siano fondamentalmente due
variabili tattiche di una stessa strategia. Mi riferisco in particolare
al cambio di politica estera delle due amministrazioni: quella Clinton
e quella Bush. L'amministrazione Bush è una amministrazione
che, come avete visto, a partire dall'11 settembre, si è
impegnata in due conflitti, uno pseudovinto e l'altro pseudoperso, in
Afganistan e Iraq, e che al tempo stesso sta combattendo conflitti di
cui non si parla, semi invisibili, più o meno a bassa
intensità, in altre regioni della terra che vanno dal Corno
d'Africa, alla zona di Aden, dalla Colombia, alle Filippine e altre
zone. Questa amministrazione quindi è considerata,
giustamente, particolarmente militarista. Dal canto suo
l'amministrazione Clinton, quella buonista, progressista (lo dico
apertamente, non nascondo i miei punti di vista), quella che piace
molto ad alcuni uomini politici di centro sinistra, è una
amministrazione che certamente non ha mandato soldati a combattere
direttamente sul terreno ma che si è impegnata in un bel
numero di conflitti anch'essa. A parte il conflitto del Kossovo in cui,
secondo me, è stata in realtà trascinata
più o meno dagli europei dando poi una certa impronta alla
vicenda, in particolare si è impegnata in un gran numero di
"conflittini" o considerati tali. Per esempio il famoso intervento in
Somalia nel 1993 che si tradusse in uno straordinario disastro per le
armi americane a Mogadiscio (mi sto riferendo a Black Hawk Down) e
diversi altri interventi. Tra questi vorrei ancora citare il periodo
dal 1991 al 1998 in cui fu mantenuto il controllo armato della "No Fly
Zone" con bombardamenti quotidiani che pare abbiano prodotto, soltanto
nel corso dei bombardamenti 5000 vittime civili tra gli iracheni.
Vorrei citare anche l'embargo, di cui oggi nessuno parla
più, cioè le sanzioni contro l'Iraq che, secondo
gli osservatori dell'Unicef e di alcune agenzie dell'ONU, hanno causato
tra 1 milione e 1,5 milioni di morti, vittime indirette per mancanza di
medicine, penicillina e , soprattutto, beni di prima
necessità.
E' difficile dire che si tratti di due politiche radicalmente diverse
anche tenendo conto che l'11 settembre effettivamente ha segnato uno
spartiacque fondamentale, anche se forse non un evento epocale. Sta di
fatto però che siamo di fronte a due modi diversi di
impostare la politica militare. Nel caso di Clinton si potrebbe parlare
di una politica di interventismo globale legittimo, che cerca
cioè sempre di proteggersi le spalle con l'ONU, le varie
agenzie internazionali e quindi agendo, in di fatto di diritto, in
"punta di legge" (con molte virgolette).
Nel caso di Bush invece questa politica del coinvolgimento globale, del
rispetto formale dell'ONU, e cose di questo tipo viene abbandonata a
favore dell'intervento unilaterale e, come sapete tutti, piuttosto
sprezzante ed altrettanto internazionale. Ancora una volta siamo di
fronte ad un punto di vista abbastanza convenzionale. Per esempio la
guerra in Kossovo è stata una iniziativa non benedetta (mi
dispiace per D'Alema che non la pensa così su questo punto)
dall'ONU, ma dalla NATO. Fu la NATO a combattere. Se voi ci pensate si
assiste nel periodo 1991 al 2003 ad un progressivo disinteresse
dell'occidente, in particolare degli Stati Uniti, per le istanze
internazionali di legittimazione dei conflitti.
1991: tutto il mondo sotto l'egida l'UNO contro l'Iraq. 1993 in
Somalia, nel 1995 in Bosnia, intervento sempre sotto l'egida l'ONU.
1999 conflitto in cui l'ONU non appoggia l'intervento. 2001 intervento
che viene, a parole, appoggiato dall'ONU ma, di fatto, voluto solo
dagli Stati Uniti. 2003, pochi mesi fa, conflitto in Iraq, in cui Stati
Uniti e Inghilterra e pochi altri paesi tra cui l'Italia che,
indipendentemente dall'ONU e da qualunque altra istanza si considerano
in diritto e dovere di fare un intervento militare per conto del mondo.
Per farla breve ritengo che in realtà siamo di fronte a due
variabili politicamente diverse ma sostanzialmente unificate da uno
stesso tipo di strategia politico/militare che ha un solo presupposto:
lo strapotere dell'occidente, ed in particolare degli Stati Uniti, dal
punto di vista militare.
La novità introdotta dal 2001 è una
novità paradossale, segna infatti l'attuazione esplicita di
una strategia diretta, che è quella della guerra
asimmetrica, che gli americani concepivano già a partire
dagli anni '80. In che senso il 2001, che apparentemente sembra un
disastro inatteso, un evento assolutamente imprevedibile, è
l'effetto di una strategia?
Perché gli Stati Uniti dal momento stesso in cui hanno
incominciato ad individuare nell'Unione Sovietica, poi Russia, un
gigante malato (e questo avviene a metà degli anni '80 prima
ancora che Gorbaciov varasse le sue riforme radicali), un'apparenza che
si stava sgonfiando, hanno immediatamente compreso che i termini stessi
del conflitto militare globale sarebbero cambiati.
Non ci sarebbe più stata una guerra bilaterale, una guerra
in cui i due competitori si comportano, sia uno più forte o
più debole, come due duellanti, ma ci sarebbe stata una sola
forza in campo.
Il problema quale è? E qui entriamo nel merito delle cose
dell'incontro di oggi. Il problema, molto banalmente, è che
la concezione occidentale della guerra (qui sono costretto a
semplificare anche se le cose in questo campo sono più
interessanti) che, se volete nasce nella battaglia oplitica nel
5° - 6° secolo A.C. che si basa sull'idea dello scontro
bilaterale in cui due forze teoricamente pari si scontrano lasciando
alla sconfitta sul campo dell'una la decisione e questo costituisce il
punto di svolta.
Questo tipo di conflitto bilaterale, in cui due grandi competitori sono
pronti a distruggersi, finisce nello stesso momento in cui viene a
mancare la definizione astratta, assoluta, dei due competitori.
Come se il mondo avesse un solo gigante armato che si trova circondato.
Ma circondato da che cosa? Non si trova più circondato da
uno stato, un'alleanza, una parte del mondo che vuole combattere come
lui pretende di combattere. Questo è il concetto di guerra
asimmetrica che diviene decisivo nel pensiero politico/strategico
americano dal 1985 in poi e da cui nasce tutto. Gli Stati Uniti avevano
capito perfettamente che, in un mondo di questo tipo, alla presenza di
un solo guerriero globale si sarebbero contrapposti piccoli guerrieri
diffusi che non avrebbero assolutamente accettato di combattere secondo
le regole dell'altro: questo è il concetto di guerra
asimmetrica. L'asimmetria comporta due punti di vista. Il primo punto
di vista è quello del forte, di chi ha una tale
superiorità da potere combattere convenzionalmente qualunque
altro avversario. Ma c'è anche un senso diverso, diremmo
l'asimmetria dal punto di vista degli altri, di quelli che non
rientrano in questo schema, che sono quelli che pur di combattere il
gigante ricorrono a mezzi scorretti diversi. Questo è il
punto su cui è inutile girare intorno e che è
stato prefigurato dagli americani, gli americani si aspettavano un
attacco contro il loro territorio, questo dal punto di vista teorico,
ma non sempre gli teorici e gli strateghi trovano ascolto nel loro
ambiente. Io raccolgo materiale dai siti e da altri luoghi da parecchio
tempo su questi argomenti e vi assicuro che ho trovato descrizioni di
un possibile intervento, naturalmente non venivano citate le Twin
Tower, ma qualcosa del genere, poteva essere la Casa Bianca, il Golden
Gate, o altro ma più meno il punto era quello.
Questo è il conflitto come oggi viene ridefinito in quello
che io ho chiamato prima "l'attuale e strano stato di guerra". Ora qui
(anche io dovrò misurare le parole perché,
ripeto, su questo punto c'è la possibilità di
grossi fraintendimenti) parlare di questo significa tentare di vedere
oggettivamente, senza farsi influenzare troppo dallo spirito del tempo
e da quello che noi leggiamo sui media, come evolve un modello di
conflitto e quasi sono le conseguenze, quasi mai volute, dell'evolversi
di questo modello.
Comincerò citando il più grande militare del
nostro tempo, che è inglese, John Keegan, il quale ha detto
che mai nella storia, mai, un conflitto è evoluto
così come chi l'ha iniziato intendeva che continuasse. Non
c'è stata mai una volta in cui un piano militare di guerra
ha dato, ha prodotto, un conflitto secondo le previsioni. Questo vale
per qualunque tipo di conflitto: dal conflitto del '14 a quello del
'39, al conflitto del Vietnam e, io oso dire, anche oggi in particolare
nella guerra in Iraq, l'ultima guerra nel 2003. Esiste, aggiungo, una
sorta di tradizionalismo tipico di chi inizia una guerra per cui
qualunque modello strategico, cioè di conduzione globale di
un conflitto, viene condotto in realtà tenendo conto molto
di più dei presupposti teorici della propria disciplina tra
cui una disciplina discutibile come la strategia militare, che non
dell'ambiente in cui ci si trova a operare.
Cerco di spiegarmi, vi prego di avere pazienza ma questo per me
è il punto chiave.
Circa nel 210 A.C. o giù di lì (non sono mai
stato forte nelle date) come sapete Annibale, dopo essere penetrato
attraverso in Italia per le Alpi, inflisse ai romani vicino a Canosa
una terribile sconfitta in cui perì circa l'80-90%
dell'esercito romano (quindi si dice tra gli 60-80mila uomini)
utilizzando una tattica sul campo che è quella
dell'avvolgimento. In poche parole in quell'epoca si combatteva fila
contro fila, falange contro falange (il modello era ancora quello della
falange greca) e tendenzialmente avveniva questo grande "cozzo" e,
quando uno dei due cedeva gli altri non stavano a compiere grandi
stragi o a inseguire gli avversari per il semplice motivo che la
falange si sarebbe scomposta. Questo portava più o meno a
una guerra certamente sanguinosissima ma non distruttiva fino alla
fine. Annibale, per la prima volta nella storia, almeno stando agli
storici militari, fece arretrare il centro della sua falange in modo
tale da attirare l'esercito romano che si muoveva in un blocco unico
(non c'era ancora stata la riforma in "coorti" che sarebbe avvenuta
dopo) riuscendo così con la cavalleria e le ali a circondare
l'esercito romano. In poche parole quella che cominciò come
una classica battaglia tra opliti finì in una strage
indescrivibile. Trovo inimmaginabile la condizione di 70.000 soldati
romani addossati l'un l'altro in modo tale che nessuno poteva neanche
tirare fuori la spada dal fodero che furono letteralmente fatti a pezzi
dai cartaginesi, cioè dagli spagnoli, galli che combattevano
con loro, i quali potevano muoversi mentre gli altri erano bloccati
come un grande carapace un "granchione" immobile.
Il piano di guerra che più di due millenni dopo viene
inventato da Schlieffen per invadere la Francia viene copiato
esplicitamente dalla battaglia di Canne
Cioè Schlieffen e questo si è ripetuto nel 1912
quando questo piano fu pubblicato e poi avvenne nel 1939 con
l'invasione attraverso le Ardenne, utilizzò, come dice lui,
dal punto di vista logico, lo stesso piano per invadere la Francia.
Mentre un'ala del suo schieramento faceva finta di attaccare al centro
lo schieramento francese all'altezza di ?Moluse? l'altra ala fece il
giro del Belgio per cercare di circondare gli eserciti francesi.
Il piano Schlieffen era ricopiato, come proprio è noto da
parte degli storici, esattamente sulla battaglia di Canne.
Voi direte: "perché ci racconta queste storie?"
Ebbene, la battaglia con cui il fronte anglo/americano/mondiale ha
sconfitto Saddam, mediante l'uso soprattutto di forze corazzate, nella
battaglia di Kuwait City era ricopiato su questo piano. Se voi andate a
vedere i libri e soprattutto le pubblicazioni del Dipartimento della
Difesa che raccontano questi fatti scoprirete come gli Stati Uniti
americani, il famoso Generale Schwarzkopf, non ha fatto altro che, in
condizioni infinitamente diverse, riprendere lo stesso piano
consistente fondamentalmente in un attacco simulato al centro e
all'avvolgimento alle ali. Quindi quando dico che c'è un
tradizionalismo che si appoggia più sulla cultura militare
dei generali che non sulla condizione delle circostanze mi riferisco
esattamente a episodi come questi. Per cui il momento decisivo della
battaglia viene prefigurato dagli strateghi come se si trattasse di una
operazione accademica in cui conta, fondamentalmente, tener conto dei
fondamenti e citare le note a piè di pagina. Non sto
scherzando, questo è il punto centrale della questione che
ci fa capire (poi riuscirò a parlare brevemente anche di
media) perché si determinata la situazione di pantano in
questo momento in Iraq. Questo non vale naturalmente solo per i
riferimenti storici. Nel corso degli anni '80 gli strateghi americani
(la cui lettura, vi assicuro è veramente affascinate se uno
supera quella che si potrebbe dire "la ripugnanza iniziale"
nell'occuparsi di questi argomenti) hanno scoperto che esiste la
"teoria della complessità" e la "matematica non lineare" e
che quindi non è il caso di applicare nelle valutazioni
dell'andamento del conflitto soltanto un sistema funzionale semplice
per cui a tal numero di perdite nostre corrisponde un certo numero N,
moltiplicatore di perdite altrui, mentre invece è opportuno
tener conto del fatto che il combattimento, la battaglia, il momento
"clou" di uno scontro, deve tener conto anche delle controreazioni da
parte dell'avversario e quindi di una sorta di circolarità
che si muove in una sorta di spirale di cui è fondamentale
conoscere, prefigurare inizialmente l'andamento. Ecco cosa è
la guerra asimmetrica. La guerra asimmetrica è
fondamentalmente il tentativo, insisto, non riuscito, di applicare alle
condizioni contemporanee un modello di guerra innovativo legato,
appunto, all'esistenza di un solo competitore mondiale, cioè
il gigante americano.
Gli americani erano perfettamente consapevoli che a uno strapotere di
questo tipo si sarebbe reagito con interventi, con "punture di spillo",
ecc… e hanno ritenuto di poter vincere anche su questo
terreno. Quali sono gli elementi con cui, diciamo, la strategia della
guerra simmetrica pensava di conseguire questo obiettivo?
Fondamentalmente questi elementi si coagulano in 3-4 definizione
chiave. La prima, sicuramente, è quella di psycowar, di
guerra psicologica, che è qualcosa di più di
guerra psicologica, con cui si intende fondamentalmente la strategia
come inglobante qualunque aspetto tra cui, ad esempio il punto di vista
dell'avversario, la capacità di indebolirne la potenza
militare attraverso, ad esempio, la corruzione degli alti gradi: quello
che è successo in Iraq in marzo quando, per capirci, gli
americani erano riusciti a mettere dalla loro gli alti gradi della
Guardia Repubblicana promettendogli denaro, qualche tipo di beneficio,
ecc.
In questo tipo di guerra rientra anche la disinformazione del nemico:
il fargli credere cose che possono indurre il nemico in errore. In
questo tipo di guerra rientra la disinformazione dell'ambiente in
assoluto, quindi la creazione di informazione ad ogni livello, non solo
all'interno dell'infosfera, quindi dell'informazione in cui viviamo, ma
anche tecnicamente sul campo di battaglia, ad esempio, accecando tutti
i sistemi radar e così via. Secondo termine essenziale
è quello di Netwar, cioè di guerra in rete. Se si
assume che l'avversario può combattere non in modo frontale
(non in modo oplitico per capirci) ma in modo diffuso, lo
può fare soprattutto attraverso l'esistenza di reti
più o meno coperte, più o meno funzionali.
Allora compito di una strategia militare asimmetrica sarà
quella non solo di distruggere le reti del nemico ma, in particolare di
infiltrare le sue reti con una contro rete. Questo è quello
che è successo prima della guerra quando tutti i servizi
segreti occidentali, non escluso quello italiano come è
stato rivelato da "La Repubblica" e da "Il Manifesto" successivamente,
erano presenti fin da settembre 2002 in Iraq.
Un altro elemento essenziale in questo tipo di conflitto è
la tecnowar, questo è il principio essenziale della guerra
asimmetrica, mettere in opera una strategia in cui, sempre naturalmente
la parte di chi progetta la strategia sia preponderante sul piano
strettamente tecnologico. La tecnowar consiste nel fatto che se uno ha
dei carri armati, degli aerei che risalgono, come avveniva nel caso
dell'Iraq agli anni (erano retrocessi anche dopo l'embargo) '60, allora
metterò in campo delle armi che lo sovrasteranno per cui
sarà impossibile che il nemico possa reagire.
L'asimmetria quindi comporta un nuovo tipo di interazione tra i due
eserciti, tra le due forze armate, che non si basa più solo
sul "cozzo" frontale, quello tradizionale, quello a cui siamo abituati
a pensare quando ragioniamo in termini di guerra, ma su una sorta di
sovrapposizione di capacità di una parte di giocare la
battaglia dell'altro e di vincerla.
Tutto questo è clamorosamente franato nel caso dell'Iraq per
il semplice motivo che gli strateghi americani non hanno tenuto conto
dell'elemento che doveva essere considerato essenziale, nel caso della
guerra asimmetrica, di tutta questa vicenda: ed è che
l'asimmetria dall'altra parte, l'esistenza di reti di avversari che non
combattono in modo tradizionale non è solo il frutto di
quello che gli americani chiamerebbero la "perversità",
cioè l'ostinazione ma è spesso anche il frutto di
un ambiente sociale ostile. Il concetto di ambiente sociale ostile,
quindi di metacontesto se volete, in cui, all'uopo, si muove la parte
avversaria, è completamente ignorata. In poche parole gli
americani avevano prefigurato già da anni come invadere
l'Iraq (probabilmente i primi progetti risalgono a prima del '91), come
distruggere l'esercito iracheno senza troppe perdite da parte "nostra",
e senza troppe da parte dell'altro, anche se poi vi dirò che
tipo di rapporti si possono stabilire in questo campo. Gli americani,
quindi, avevano tenuto conto di tutto ma non avevano tenuto conto
semplicemente del fattore, che in questi giorni sta balzando
clamorosamente all'occhio, che il teatro in cui si disponevano ad agire
non era uno spazio "liscio", non era il deserto kuwaitiano, ma era una
società civile, una società organizzata in modo
discutibile, governata da un governo sanguinario, ma pur sempre una
società civile, una società che nonostante il
governo di Saddam era auto organizzata. Aveva Istituzioni, aveva
infrastrutture, aveva soprattutto culture (qui uso la parola cultura
non nel senso del conflitto di culture o strumenti di questo genere ma
nel senso di aree in cui le persone la pensavano diversamente e in cui
si organizzavano e avevano punti di vista diversi) che non erano
necessariamente quelli dell'invasore.
Non aver tenuto conto di questo fatto ha significato non aver capito
assolutamente come perfino in un territorio come quello iracheno che ha
montagne solo al nord e non ha troppi boschi, giungle, sia possibile
impantanarsi anche se si è in una situazione di deserto.
Ora due parole, dal mio punto di vista, sul nesso tra questo tipo di
logica militare e la logica dell'informazione. Ho detto prima che
l'infowar, la guerra dell'informazione, non è una parte
secondaria in un conflitto. Nello stesso momento in cui gli americani,
a partire dalla fine degli anni '80 hanno pensato che si sarebbero
trovati in questa situazione l'informazione in senso lato è
diventata parte della strategia militare. Non sto sbagliando, non
è un lapsus, la questione dell'informazione viene assunta
nella sfera militare, non avviene prima, come in precedenza (ad esempio
nella guerra del Vietnam) per cui la guerra viene combattuta in un
ambiente in cui l'informazione teoricamente può essere
sovrastante o circostante ma l'informazione viene "tirata dentro" la
sfera militare. L'infosfera viene considerata variabile e
assoggettabile ai fini militari.
Mi avvio al cuore delle considerazioni.
La guerra del Vietnam non è stata persa assolutamente, come
si ritiene in modo popolare, perché i media si sono
ribellati né perché i media hanno fato vedere la
guerra. La guerra del Vietnam è stata persa per il semplice
motivo, la dico brutalmente, perché ha incominciato a
coinvolgere le mamme e cioè è stata persa dal
momento i cui è partita la leva di massa.
Voi sapete che gli Stati Uniti, come l'Inghilterra, si basano ancora
oggi, tranne alcuni periodi (e cioè la 2° guerra
mondiale ed il Vietnam), sull'esercito volontario o, se volete,
mercenario, un po' come avverrà in Italia.
Il progressivo impantanarsi in Vietnam portò, nel '76, gli
Stati Uniti a fare questa cosa particolare che è una sorta
di leva di massa travestita per cui ad esempio i giovani americani, e
soprattutto quelli neri, quelli delle minoranze sfavorite, erano
costretti a andare in guerra, quindi ad arruolarsi contro la loro
volontà, se la loro riuscita scolastica non era buona.
Sto parlando di una società, un paese di cui non condivido
per nulla evidentemente la politica ma che certamente non ha una
dittatura, per quanto questo può significare. Quindi sto
parlando di una società complessa e per certi versi
interessante, per certi versi molto diversa da come penso molto spesso
il pubblico se lo immagina.
Sto parlando di profonde questioni sociali perché erano i
neri, i bianchi poveri del sud, del Texas per esempio, che andavano a
combattere.
Fare questo significava esporre la società americana alla
brutale verità del fatto che ogni famiglia (soprattutto non
famiglie come quelle di Bush e Clinton che, come sapete bene, si sono
ben guardati dall'andare in guerra) al pericolo che i loro figli
andassero a combattere. Per questo dico che la guerra del Vietnam
è stata persa al momento in cui le mamme sono state
coinvolte. Le mamme, le famiglie negli Stati Uniti hanno un ruolo
fondamentale perché se cominciano a scrivere al loro
rappresentante, perché protestano, perchè
l'america come sappiamo, da (…) in poi è un paese
in cui l'associazionismo, specie su base religiose regge, nonostante
tutto, l'intera impalcatura della società.
I media hanno, da parte loro, costituito uno strumento con cui le
mamme, le famiglie potevano vedere in diretta quello a cui i loro figli
erano assoggettati. Mi sto riferendo in particolare alla "Giornata del
Tè", a quando i Viet Cong riuscirono ad entrare
nell'ambasciata americana uccidendo i marines di guardia oppure alla
battaglia di (…) in cui i Viet Cong riuscirono ad entrare
nelle basi.
E' questo un momento importante, da quando la guerra è
entrata nelle famiglie attraverso la televisione. Ci voleva la guerra,
ci voleva la televisione, ci volevano le famiglie sensibili a questo.
Questo è il motivo per cui questa guerra diventa
intollerabile per la società americana.
Combattere la guerra dell'informazione vuol dire, per esempio,
tranciare di netto un possibile canale di comunicazione tra
ciò che avviene veramente in guerra, la televisione e le
famiglie, quindi tranciare il rapporto tra il sistema informatico
militare e il sistema della vita sociale a livello famigliare.
Questo nel 1991, quando gli americani si aspettavano ben più
perdite di quanto abbiano in realtà avuto, tutto il
giornalismo mondiale, il sistema informativo mondiale, televisioni,
stampa, ecc, è stato, con un colpo di mano verso il cui
nessuno si è ben guardato dal protestare, messo sotto gli
ordini del Generale Schwarzkopf.
Vi ricorderete come nessun giornalista ha potuto assistere in nessun
modo alle operazioni militari fino ad arrivare al paradosso per cui, a
battaglia finita questi poveri iracheni che si arrendevano si sono
arresi persino alla televisione italiana.
Da allora pensare che in tempo di guerra esiste una informazione
indipendente è una vera bubbola.
L'informazione indipendente non esiste. Dire questo non vuol dire
immaginare qualcosa come il Grande Fratello di Orwell. Non
c'è la Verità americana che sovrasta il mondo e
che ci dice quello che sta succedendo. No, le procedure sono un pochino
più complicate. Qui cerco di dire, secondo me, alcune parole
su questo punto.
Per cominciare naturalmente stiamo parlando di un sistema informativo
in cui gli Stati Uniti fanno la parte del leone, gli Stati Uniti e i
loro alleati: Australia, Murdoch, Inghilterra, Italia, ecc, che in
qualunque momento controllano l'informazione.
Questo sistema non è un sistema statico, è un
sistema che affronta gli andamenti delle cose della guerra giorno per
giorno e, naturalmente, è un sistema plurale. Fa ridere
citare l'Italia ma se noi pensiamo al mondo pensiamo a un sistema
plurale ed è vero che tutte le informazioni del mondo
vengono canalizzate da non più di 4 agenzie centralizzate,
ma è ben vero che i terminali sono così numerosi,
così complessi che sarebbe impossibile per queste 4 agenzie
"dire" oltre un certo livello, fabbricare oltre un certo livello
l'informazione. Fabbricare nel senso della "fabbrication" inglese che
vuol dire anche costruzione di menzogne, per capirci.
La verità è che questo è un sistema
complesso, un sistema dinamico, un sistema che inevitabilmente ritrova
a reagire in certi momenti a certe situazioni ma poi cambia. Ad esempio
il sistema negli Stati Uniti (ero lì in quel momento) ha
reagito all'11 settembre praticamente mettendo la mano all'elmetto in
modo assolutamente unanime. Successivamente ha cominciato a
interrogarsi sul perché, proprio "l'imperio" della
comunicazione di mercato (la comunicazione è di mercato) ad
esigere che il mercato stesso fosse soddisfatto.
Allora nello stesso momento in cui il messaggio dominante (quello del
patriottismo, del battiamo il terrorismo, ecc) comincia a scricchiolare
perché il terrorismo non viene sconfitto, in quello stesso
momento il mercato (che forse è ancora più
fondamentale del sistema dell'informazione, che è ancora
più importante de sistemo politico/militare americano)
comincerà a esigere che si dica la verità, che
cioè si individuino delle strategie un pochino
più efficaci. E' per questa ragione che a partire da
aprile/maggio di quest'anno (2003) l'intero sistema del consenso
americano e quindi del consenso mondiale ha cominciato a modificarsi.
Ecco perché i giornali americani che ancora nell'inverno del
2001/2002 (parlo dei grandi giornali Los Angeles Time, New York Time,
Washington Post, ecc.) hanno iniziato lentamente a non credere
più a quello che la Casa Bianca diceva.
Qui pongo un problema: ci hanno creduto prima. L'aspetto strutturale
infatti non è tanto la revisione del loro punto di vista ma
è impressionante che nessuno si sia posto il problema del
perché avrebbero dovuto credere alla versione globale :"noi
nella giusta lotta contro il terrorismo" finchè la lotta
andava bene. Successivamente hanno incominciato chiederselo…
Quindi c'è un limite. Io non credo affatto, e di questa cosa
discuto spesso con il mio amico Giulietto Chiesa che su questo ha
opinioni un pochino più radicali. Giulietto pensa che
viviamo in un mondo in cui fino all'ultimo messaggio di posta
elettronica viene sorvegliato.
Io penso che sia possibile sul piano teorico ma credo anche che il
carattere composito, inevitabilmente pluralistico del mondo
dell'informazione faccia sì che sia impossibile mantenere la
Verità, rigidamente nell'arco di un certo lasso di tempo. E
questo è quello che sta succedendo, se ci pensate, in Iraq.
Naturalmente questo succede con piccole spot, piccole "macchie",
piccole interruzioni.
Faccio un esempio molto banale. Vi sarete accorti come, dopo Nassirya e
dopo l'ultimo elicottero americano abbattuto, praticamente non ci siano
più informazioni sui giornali sull'andamento del conflitto
in Iraq. Come se gli americani non morissero più. E'
assolutamente falso. Per verificare questo basta girare tra i siti dei
giornali e delle agenzie americane e si capirebbe che dai 2 ai 3
marines ogni giorno muoiono. Naturalmente basta spostare le perdite
dall'asse "sconfitta" all'asse "incidenti" di vario tipo (ogni esercito
in campo ha sempre delle perdite di questo tipo) per deviare
l'attenzione da quello che è. Infatti ormai è una
sconfitta militare devastante. E' inutile che noi evitiamo le
questioni: quella americana in questo momento è una
sconfitta strategica assoluta, che non ha possibilità di
correzioni né di miglioramento. Si tratterà solo
di capire come e quando questi e i loro alleati, tra cui il nostro
piccolo paese, riusciranno a togliersi da quel pantano, questo
è il fatto.
Se voi pensate al contesto che circonda questa vicenda e
cioè alla Siria, l'Iran, al pasticcio incredibile che
è stato creato è viene una sconfitta. Eppure la
parola sconfitta non può essere citata, non può
essere detta e non possono essere più dichiarate le perdite
in campo.
Qui ancora alcune piccolissime considerazioni su questo punto. Che cosa
determina il senso culturale pubblico di una sconfitta?
Se tornate brevemente, mi pare, a quel 8-9 ottobre del 1993 quando gli
americani riuscirono a farsi abbattere 3-4 elicotteri a Mogadiscio.
Quel giorni si trattò di una semplice operazione che viene
raccontata, non tanto nel film "Black Hawk Down" fatto secondo me in
modo molto falsificante, ma nel libro che è piuttosto
interessante.
Quel giorno gli americani mobilitarono un centinaio di forze speciali:
Rangers, Delta Force, agenti della CIA, quindi persone in larga parte
scoperte, non militari ordinari, per catturare due luogotenenti di
Aidid.
Come sapete la cosagli andò male subito poiché
gli americani una volta di più (qui c'è proprio
un deficit strutturale di capacità di comprendere) non
avevano calcolato che andavano a fare questa operazione nella zona del
mercato di Mogadiscio, all'interno di un quartiere completamente
controllato da Aidid. Il risultato fu che appena gli americani si
calarono sull'albergo in cui c'erano i loro bersagli e si impadronirono
di questi l'intero quartiere, anzi l'intera città di
Mogadiscio con l'esclusione delle ambasciate e dei campi militari
dell'ONU si è ribellata contro di loro.
100 Rangers super armati, con elicotteri e tutte quello che immagino
potevano avere, si sono ritrovati circondati da 200-300.000 persone in
gran parte, in vari quartieri della città, entrati in
conflitto con loro. Il risultato di questa battaglia è che
20 americani morirono sul momento, un'altra decina in seguito negli
ospedali militari e tutti gli altri furono feriti che dal punto di
vista della squallida contabilità militare è un
vero rovescio.
Pochi hanno detto, naturalmente le cifre si conoscono, quali furono le
perdite degli avversari. Le perdite degli avversari si calcolano tra le
500 e le 1.000. Lo stesso è avvenuto al Check Point "Pasta".
Qualche tempo dopo gli italiani si vanno a incartare in una operazione
analoga fatta ancora in modo più dilettantesco: il risultato
è che 3 italiani sono morti e diversi sono feriti, le
perdite tra dei somali si stimano in 3-400.
Viene fuori cioè che questa sconfitta, che fu una sconfitta
perché le immagini dei due elicotteristi americani
trascinati per le strade convinsero Clinton a togliere il contingente
dalla Somalia, si traducono quasi sempre in un bagno di sangue per
l'ambiente sociale, per l'ambiente complessivo in cui queste avvengono.
Questa è una caratteristica normale di queste nuove guerre.
E' brutto usare questi argomenti ma tenete conto che nel conflitto in
Iraq che ha già provocato più di 500 morti tra
gli alleati (quindi americani, inglesi e italiani) le perdite degli
altri non possono essere state inferiori del rapporti 1 a 100. Quindi
siamo di fronte almeno (stante la situazione delle armi, il tasso di
presenza demografica, di abitazioni, ecc.) probabilmente ad un numero
di caduti globali, civili e militari irachene che non può
essere inferiore ai 50.000.
Siamo di fronte a forme di stragi di massa che vengono assolutamente
metabolizzate dall'altra parte come le famose "perdite collaterali".
Nel '93 comunque si è trattato di una sconfitta mediatica,
non di una sconfitta militare, infatti i Generali se ne "sbattono"
assolutamente di queste tragedie.
La differenza è che nel '93, proprio perché
l'america aveva appena vinto la guerra nel Golfo, ci fu una sorta di
"strappo mediatico". Gli americani si consideravano in pace per cui la
perdita di questi Ranger a Mogadiscio li convinse che si era di fronte
a una situazione eccezionale.
(…)
La difficile e complicata manipolazione dell'informazione rende
accettabile delle perdite non solo americane ma soprattutto la morte di
decine di migliaia di persone. E' questo il "resto" negativo di queste
sconfitte.
(mancano un paio di frasi dal testo registrato in cui si affrontava il
controllo dell'informazione come strumento all'interno di una guerra.
n.d.r.)
Mi rendo conto che queste argomentazioni possono suscitare qualche
fastidio. A me è successo parecchie volte (lavoro da
parecchio tempo su queste cose come ricercatore) che questo tipo di
argomentazioni siano ritenute ciniche ma vi assicuro che non lo sono.
D'altra parte è anche vero che nessun tipo di adesione
morale o politica al patriottismo ci può impedire di
affrontare una realtà che è un pochino complicata
e al tempo stesso piuttosto dura. In questo senso penso che bisogna si
debba essere al contemporaneamente estremamente sensibili alla forza
dei movimenti di massa che nel protestare contro la guerra ma si debba
anche essere molto realisti sulla loro capacità di incidere
veramente nel processo. C'è stato un movimento straordinario
quantitativo, misurato attraverso alcuni sondaggi, per cui possiamo
dire tranquillamente che per la maggioranza degli abitanti di questo
mondo, informati (molte zone di questo non sanno nulla) sicuramente il
conflitto in Iraq è stato vissuto come una occupazione
indebita, illegale e foriera di disastri futuri. Questo non ha
minimamente impedito che, proprio in virtù del loro
controllo di mercato e saltuario dell'informazione, i governi dei paesi
belligeranti e gran parte dei paesi alleati abbiano combattuto una
guerra infischiandosene completamente della maggioranza della loro
popolazione. Questo, badate bene, non vale solo per Inghilterra,
America, Spagna, Italia, vale anche per gli altri paesi dell'occidente
i quali hanno pensato in alcuni momenti di cavalcare il pacifismo ma
per motivi che il penso che con la pace non avevano del tutto a
spartire, come penso sia successo in Francia.
Io non sono di quelli che dicono che a partire da un certo punto in poi
l'interesse delle Istituzioni diventa brutalmente, assolutamente
politico e smette di essere, se lo è, di ricerca o
scientifico. Viviamo in una situazione abbastanza particolare in cui
possiamo naturalmente mobilitare o metterci dentro la mobilitazione
contro la guerra ma dobbiamo sapere perfettamente come l'andamento del
nostro mondo o il tipo di potere del nostro mondo, che non ha
precedenti nella storia, può benissimo infischiarsene del
nostro pacifismo.
Allora, da questo punto di vista, io considero quasi peggio
dell'adesione del governo Berlusconi con la connivenza di circa
metà del centro sinistra, che non l'incredibile gazzarra
patriottica che è successa a partire dalle morti di
Nassirya. Questo per me è il vero centro del vero pericolo
(anche perché non sono così ingenuo da non
collegarlo alle fortune politiche di alcuni leader di destra
alternativi a quello esistente). Trovo impressionante che
nell'opposizione non una voce si sia levata a dire quale osceno
spettacolo tricolore sia stato giocato in questi giorni. C'è
da vergognarsi, lo dico anche se questo, come dico sempre,
può essere considerato un atteggiamento "sgradevole", a
partire dal nostro Presidente della Repubblica, cioè dal
garante della Costituzione.
E'inammissibile che si possa mettere in scena quello che si
è messo in scena a partire dal telegiornale che una sera
sento dichiarare per voce della telecronista: "Ecco i nostri giovani
eroi, belli e con i capelli corti!". Francamente provo schifo di fronte
a queste a cose del genere. Non parliamo comunque delle cose comiche e
tipicamente italiane: mancavano infatti le sedie per le famiglie dei
caduti… ma questi episodi sono semplicemente tipicamente
italiani.
Bisogna capire che il vero problema del controllo dell'informazione in
questo momento non avviene tanto nelle situazioni di guerra che con un
po' di buona volontà, perché proprio il sistema
è pluralistico possiamo trovare scartabellando su internet o
leggendo nei giornali stranieri, ma avviene proprio dalla messa in
gioco di questi mondi, cioè dalla creazione di queste
mitologie patriottiche che sono tanto più, mi permetto di
dire, disgustose quanto più cercano di tacitare domande
banali: cioè che l'Italia ha mandato alcuni migliaia di
persone oltretutto, e mi scuso dell'argomentazione ma dobbiamo dire
anche questo, non particolarmente allenate, sbagliando clamorosamente
le valutazioni politiche. Infatti se ci fosse stata una valutazione "di
teatro" non avrebbero messo un comando in una palazzina tra un fiume e
un prato senza sbarramento attorno.
Inoltre persone mandate in una guerra che se avessero intervistato, non
dico i … televisivi come Magdi Allam o l'altro suo omonimo,
ma magari qualche iracheno gli avrebbero detto che era vissuta come una
occupazione militare di stranieri quale che è, e soprattutto
sulla scia di un esercito vincitore il quale aveva finito appena di far
fuori tra i 40 e i 50000 iracheni.
Questo, mi spiace dirlo, bisognerà iniziare a metterlo sul
piatto perché questo è il motivo per cui noi ci
troviamo, non troppo, ma abbastanza impantanati in una situazione di
questo genere. Finisco dicendo che è molto probabile che gli
americani non sono in grado, né i loro alleati, di uscire da
questo conflitto salvando la faccia (a questo punto è meglio
che lo facciano salvando la faccia piuttosto che creare disastri
successivi). E' molto probabile che a noi, al nostro paese, anche se
questo riguarda poche decine migliaia di volontari sia richiesto di
intervenire, perché sia ben chiaro che se gli americani non
lo faranno ma ritirano sopratutto, mantenendo le forze combattenti, le
forze complementari, la logistica, la polizia militare ecc, questo tipo
di intervento militare non può che essere sostituito da
quello di altri paesi e noi probabilmente saremo chiamati a farlo di
più. Quindi vuol dire entrare ancora di più in
una situazione militare che non ci riguarda, rispetto a cui non ci sono
interessi (uso questi argomenti volgari ma è su quelli che
penso ci si possa capire di più, effettivamente), e
soprattutto che ci espone, esattamente oggi come ieri e probabilmente
di più domani, a delle controreazioni che, parliamoci
chiaro, io non posso giudicare ma che posso considerare illegittime
rispetto a un indirizzo di guerra tradizionale ma che mi sembrano del
tutto comprensibile. E se qualcuno pensa che le reti di Al Qaida siano
costituite solo da pochi miliardari pazzi e fanatici votati alla guerra
forse non ha capito che dietro questi hanno l'appoggio di popolazioni
derelitte e diseredate molto numerose in quasi tutto il mondo arabo.
Questo è il panorama in cui si muove tutto questo, allora
penso che la battaglia sull'informazione è una battaglia
strana perché anche lì non c'è un vero
nemico. Molto spesso i nemici, scusate, si annidano tra di noi, io non
posso non leggere su "La Repubblica" l'intervento in cui Adriano Sofri
dice che non ci dobbiamo ritirare, contribuendo anche lui a questa
situazione, non perché il suo giudizio non sia legittimo ma
perché è l'argomento che è sbagliato.
Il problema non è se ci dobbiamo ritirare o no. Allora la
"battaglia" (ahimè ormai il linguaggio militare è
dappertutto) dell'informazione è un compito che copre
moltissimi livelli, per cui va benissimo, sono assolutamente d'accordo
sul fatto che è vergognoso che "RAI OT" sia stata proibita
ma è altrettanto vergognoso che non ci siano critiche nei
confronti della militarizzazione dell'informazione e della
nazionalizzazione dell'informazione che sta avvenendo, che è
avvenuta per alcuni giorni in modo per me ripugnante in questo paese.
Io direi che da questo si potrebbe ripartire a discutere per vedere di
riportare la questione nei compiti che non solo, dal mio punto di
vista, del nemico, dell'avversario politico (ripeto, il linguaggio
militare si infila dappertutto) ma che è anche il nostro.
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Articolo pubblicato sulla rivista "LG argomenti" |
Media e Identità
Enrico
Testino
“Ogni medium crea
un suo tipo
non
solo di pubblico
ma anche di configurazione mentale.”
2000 - Derrick De Kerchove
- intervista
Media e pensiero: nuove
qualità
Più la tecnologia dei media si
evolve più la struttura del loro linguaggio si avvicina a
quella del pensiero.
Dalle immagini ferme, lente nella loro
creazione, dalle parole senza immagini e suono, dal solo suono si
è arrivati oggi a media che hanno compresenza di immagini,
suoni, parole uniti da una velocità di esecuzione e
trasmissione prima inimmaginabile. Si è arrivati alla
possibilità di rappresentare linguaggi visivi con
velocità mai raggiunte, di potere pensare e creare
collettivamente immagini (pensate a due grafici pubblicitari che
realizzano insieme una immagine con un pc), e di potere diffondere
messaggi ed idee istantaneamente a livello planetario.
Con la quasi immediata
rappresentabilità del pensiero tramite linguaggio visivo,
uditivo e alfabetico si è giunti vicino ad una potenziale
sintonia tra rappresentazione interna del mondo (il mondo che ognuno di
noi si raffigura e che è riferimento e mappa del nostro
agire e progettarsi) e rappresentabilità esterna e
collettiva di questa tale da rendere la comunicazione mass mediatica
incredibilmente potente, evoluta e capace di raggiungere
l’intimità degli individui (se non addirittura
esternalizzare le personali rappresentazioni del mondo)1.
Una comunicazione così nuova
tanto da porre in atto una serie di neo-questioni che investono tutti
gli aspetti sociali, culturali e mentali dell’agire umano e,
ovviamente, della formazione dell’identità.
Possiamo citare come alcune tra le questioni che ci riguardano oggi in
maniera urgente i nuovi linguaggi (i bambini/e sempre di più
privilegiano un linguaggio/pensiero visivo a uno alfabetico con
conseguenti adattamenti dell’attenzione, della formulazione
del pensiero, della capacità espressiva),le nuove didattiche
(le scuole sempre di più si stanno attrezzando per usare
tecnologie di comunicazione nelle ore di lezione; internet: banca dati
universale dove raggiungere la mera informazione non è
più la capacità da privilegiare ma è,
invece, l’abilità di orientarsi in essa), le nuove
culture (es. progressivo indebolimento delle culture territoriali,
famigliari, di comunità a favore di culture mediatiche
condivise, a-territoriali, a-temporali, a-storiche).
Si potrebbe pensare quindi che sia
“semplicemente” d’obbligo, per chi si
occupa di infanzia, di cultura e di trasmissione di sapere
all’infanzia (la funzione, ad esempio, della biblioteca De
Amicis) di costruire competenze e iter didattici che possano fornire
nuove consapevolezze/capacità di gestire i nuovi linguaggi
mediatici, di favorirne la comprensione, di facilitarne
l’uso.
Ben venga questo percorso di ricerca e
sviluppo ma pensiamo che la sola abilità nel gestire la
tecnologia, nel riconoscere e destrutturare i linguaggi, nella postura
critica verso i messaggi non basti più a formare individui
autonomi e critici.
“Nell’era
elettrica, indossiamo
l’umanità come pelle.”
1964 - Marshall McLuhan –
“Gli strumenti del comunicare”
Media e
pensiero:nuove quantità
I media oggi hanno dalla loro la forza della quantità. Una
forza pervasiva, una forza d’urto (citiamo uno studio del
1997: in Francia un bambino all’età 12 anni,
è stato sottoposto a circa 100.000 spot”
televisivi 2)
contesa da tutti i gruppi capaci di gestire mass media a tutti i
livelli per la conquista in profondità
dell’identità delle persone per fidelizzarle a
ideologie, prodotti, comunità.3
La rappresentazione del mondo delle persone
è divenuta quindi un terreno dell’odierna
battaglia per l’accaparramento del mondo e i mass media sono
alcune tra le armi di conquista più efficaci.
I mass media, intesi come quei mezzi capaci
di trasmettere lo stesso messaggio, contemporaneamente, a milioni di
persone, sono oggi agenzie di stampa, giornali, televisioni di vario
tipo, radio, internet, cartellonistica pubblicitaria, cinema,
cellulari, che trovano la nuova frontiera tecnologica nella rete
elettrica/neurale mondiale capace di sommare tutti i mediae di fornire
una potenzialità di connessione senza nessuna pausa.
Non è raro che ognuno di noi
venga raggiunto ogni giorno da più di questi mezzi con lo
stesso messaggio.
Che lo vogliamo o no, che lo ammettiamo o no
la nostra mappa del mondo e la personale bussola che ci orienta in
esso: la nostra identità, ne è influenzata
massicciamente.
Siamo influenzati nella nostra cultura,
scelte lavorative, attitudini sociali, nella personale agenda delle
priorità politiche, nella nostra estetica e, di conseguenza,
nei nostri consumi e nelle nostre adesioni a diverse ideologie.Poco
importa, soprattutto in bambini/e, ragazzi/e adolescenti, che la
consapevolezza sulla struttura del linguaggio dei media sia alta. La
forza d’urto dei messaggi risulta comunque sensibile.
Non basta sapere che la
pubblicità di quella data bevanda si basa su certi
meccanismi di comunicazione… se tutti la bevono, se
è presente ovunque, se è ricercata da tutti
sarà difficile non sceglierla.Sarà difficile
persino che voi lettori non la immaginiate adesso anche se non
è citata in queste righe!
Se la “massa
desiderante” (milioni di persone che desiderano la stessa
cosa) viene creata allora il possesso dell’idea/prodotto
proposta diventa un urgente punto d’arrivo sociale e
personale.
Di fronte a questo cambiamento epocale (che
sta avvenendo tramite la tecnologia in diverse scienze e che sta
promettendo di cambiare la sostanza stessa dell’essere umano
con la manipolazione genetica e cibernetica) ipotetici corsi di
“educazione ai media” per bambine/i, ragazze/i non
possono limitarsi a ambiti linguistici o psicologici ma devono porsi il
problema di descrivere/mostrare tutti i passaggi economici, culturali,
sociologici tramite i quali un messaggio diventa potente.
Precisiamo che la chiave interpretativa
scelta non è quella che vede la manipolazione di tutti i
mass media principali da parte di qualche gruppo di interesse specifico
ma piuttosto una visione antropologica in cui la nuova tecnologia
cambia a fondo le strutture del comportamento umano individuale e
collettivo, mentale e politico.
“So che adesso le
cose sembrano molto caotiche, capo,
ma
io credo ancora nella legge.
Devo
soltanto scoprire dov’è
l’ordine.”
1999 – Bruce
Sterling – “Caos U.S.A.”
Ciclo di
conferenze MEDIA E IDENTITA’
Da queste considerazioni sulla
complessità del fenomeno mediatico oggi, dalla
difficoltà ad affrontarlo in modo utile per chi si occupa di
infanzia, forse dalla nostra inadeguatezza nel trovare una risposta
semplice ed efficace e, infine, dalle esperienze su laboratori di
educazione ai media nelle scuole
“dell’obbligo” sono nati i cicli di
conferenze Media e Identità giunti quest’anno alla
2° edizione.
Il progetto è nato
dall’esigenza di affrontare i media da più punti
di vista, di raccogliere diverse esperienze in un luogo di confronto e,
speriamo, di produzione di nuovi punti di vista e soluzioni.
La finalità del ciclo
è di creare quindi uno spazio di pensiero, non innovativo
ma, speriamo, caratterizzato, uno spazio garantito dalla
affidabilità delle Istituzioni aderenti (prime fra tutti la
Biblioteca De Amicis che ha appoggiato l’iniziativa da subito
e la Biblioteca Berio,l’Assessorato ai Servizi Educativi ed
Istituzioni Scolastiche e l’Assessorato alla Cultura del
Comune di Genova e l’Assessorato all’Istruzione e
alle Politiche Scolastiche della Provincia,
l’Università degli Studi di Genova –
Facoltà di Scienza della Formazione) che possa porre in
pubblico una serie di riflessioni sui media. Riflessioni che possano
dare spunti da diversi punti di vista tramite il parere di esperti di
diversi ambiti e discipline.
Così, oltre a due
“addetti ai lavori”, Pino Boero, Preside della
Facoltà di Scienze della Formazione di Genova e Giorgio
Bini, che ha confermato la sua capacità di svelare in modo
brillante tematiche centrali ed affascinanti, sono stati invitati
giornalisti, psicologi, pubblicitari, accademici, critici
d’arte, sociologi che hanno portato le loro personali
suggestioni e suggerimenti su “come i media influenzano la
formazione dell’identità”.
Restando sulla formazione
dell’identità tanti ci sembrano i temi su cui
bisogna ampliare lo spazio di discussione e progettazione. Non
è possibile, ad esempio, transitare senza discussione sulla,
purtroppo prevista sempre maggiore , sponsorizzazione della scuola
italiana in atto (esistono in quasi ogni classe genovese delle scuole
elementari e medie inferiori pubblicità di noti marchi
locali con i quali i bambini convivono per 8 anni tutti i giorni) e
futura 4.
La nostra intenzione è di
coinvolgere in uno spazio comune diverse competenze e soprattutto di
contribuire a fare nascere una attenzione sui meccanismi mediatici di
formazione dell’identità che, oltre ad accogliere
le considerazioni e i contributi di pedagogisti e psicologi, spinga
verso la strutturazione di un pensiero (e conseguenti iniziative
accademiche, scientifiche, culturali… legislative) che si
rivolga verso gli aspetti sociali, culturali, economici, politici.
Nelle conferenza svolte ogni relatore ha
parlato di “come i media influenzano la formazione
dell’identità” dal proprio punto di
vista e la prima sorpresa è che nessuno si è
trovato fuori luogo ma tutti i saperi convenuti avevano molte cose da
dire. Tutte incredibilmente pertinenti.
Un tema che è stato toccato da
tutti è stato quello del consumo: quanto oggi nella cultura
proposta dai mass media sia importante e centrale la presenza
dell’aspetto economico e dell’educazione eccessiva
al consumo. Altro tema centrale è stato il cambiamento di
linguaggio in atto nei giovani così come i cambiamenti
culturali dovuti alla nuova situazione mediatica.
Una iniziativa simile, che unisce
Assessorati alla Cultura e alla Scuola, associazioni che si occupano di
Commercio Equo e Solidale, Associazioni di Pedagogisti,
Università della Formazione, Enti che si occupano di tempo
libero ed infanzia qualche decina di anni fa sarebbe stata vista come
improbabile, oggi è vista come inevitabile. La misura
dell’interesse della comunità rispetto a questi
temi è data dal fatto che anche le associazioni partecipanti
hanno contribuito con loro risorse e lavoro non retribuito alla
realizzazione dei cicli di Media e Identità.
L’impressione è che ci
siano ancora molti ambiti in cui debba nascere una gestione dei nuovi
mediadella loro interazione con la collettività ed il
singolo. Oltre agli ambiti didattici, formativi, linguistici, ecc,
anche ambiti che affrontino la gestione dello spazio pubblico e la
presenza di pubblicità (nelle scuole, città, vie,
piazze), la legislazione rispetto ai media di informazione,
l’innovazione dei luoghi/biblioteche di trasmissione e
gestione del sapere, e altri ancora che sarebbe qui faticoso anche solo
enumerare.
Per non disperdere gli sforzi delle
iniziative organizzate abbiamo in parte (quelli possibili per ragioni
tecniche) raccolto gli “sbobinamenti” delle
conferenze effettuate nel sito www.mediaeidentita.it
dove troverete anche la lista dei relatori, delle associazioni e delle
istituzioni intervenute ai quali mandiamo un sentito ringraziamento per
la volontarietà dei loro sforzi.
I relatori intervenuti fino ad oggi alle
Biblioteche De Amicis e Berio sono stati:
- 1° ciclo di conferenze (2003):
Giorgio Bini, Gianfranco Bruno, Gulietto Chiesa, Alessandro Dal Lago.
2° ciclo di conferenze (2005): Pino Boero, Pier Pietro
Brunelli, Gianfranco Marcucci, Fausto Pellegrini, Michele Sorice,
Lanfranco Vaccari.
1
Come si esprime Derrick De Kerckhove “La televisione, per
esempio, è un immaginario collettivo proiettato
all’esterno dei corpi della gente,tale da aggregarsi in un
processo relativamente coerente e convergente”. Derrick De
Kerckhove Brainframe, mente, tecnologia, mercato. Bologna
, Baskerville 1993. Cit. p. 23.
2
citazione di Ignavia Ramonet (1997) tratta da Vanni CodeluppiIl
potere del Consumo. Torino, Bollati Boringhieri 2003. Cit.
p. 19.
3“La
marca ha valore quando introietta e trasmette forti valori. Nel suo
lungo divenire storico – da semplice marcatore di
proprietà/identificazione a motore semiotico ed
identità – la marca è approdata adesso
al variegato mondo dei valori e dell’etica. Valori
nell’interpretazione sociologica corrente, come aggregati di
senso – cognitivi e affettivi – coerenti, duraturi,
moralmente vincolanti, capaci di guidare le scelte individuali per un
periodo di tempo sufficientemente prolungato. (…)
Che la marca abbia valore – anzi
come si legge sempre più speso nei testi di management, che
“rappresenti l’asset più importante di
cui l’impresa dispone – i sono ormai troppe
evidenze per doverlo ancora documentare. (…) Al limite la
marca come un re Mida dei nostri giorni che trasforma in oro tutto
ciò che tocca.”
Giampaolo Fabris, Laura Minestroni, Valori
e valore della marca. Come costruire e gestire una marca di successo, Milano,
FrancoAngeli2004. Cit. p. 13.
4“All’inizio
del decennio queste cosiddette emittenti televisive per e scuole hanno
presentato una proposta a consigli scolastici nordamericani. Hanno
chiesto loro di aprire le aule a due minuti al giorno di
pubblicità televisiva, inserita all’interno di
programmi su temi d’attualità per adolescenti
della durata di 12 minuti. (…) Non solo gli studenti sono
obbligati ad assisterealla trasmissione ma gli insegnanti non possono
regolare il volume (…). In cambio le scuole (…)
possono utilizzare le tanto agognate apparecchiature televisive per
altre lezioni e, in alcuni casi, ricevere dei computer gratis.
(…) Oggi Channel One (una delle emittenti in oggetto .
n.d.r.) è presente in 12000 scuole e raggiunge un numero di
stuidenti calcolati intorno agli 8 milioni”
Naomi Klein, No Logo,
Milano, Baldini & Castoldi 2001. cit. p. 122
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